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Nefes, ultimo lavoro di Antonello Tudisco giovane coreografo partenopeo, ha girato l’Italia selezionato all’interno del progetto del MiBAC “Teatri del tempo presente” promosso dal Ministero dei beni culturali è da poco stato presentato a Napoli. Cosa accade se un coreografo fa gridare ai suoi danzatori che ognuno è un artista? Accade che non si può più fingere di non sapere, accade che dal momento in cui lo spettacolo finisce inizia una riflessione su se stessi e sul modo di vedere gli altri.

Ti va di raccontare ai lettori di Campadidanza l’iter della tua formazione artistica?

Ho studiato danza a Napoli da Mara Fusco seguendo il percorso tradizionale di 8 anni, ho iniziato intorno ai 12 anni e ho concluso gli studi a circa 19 anni. A quell’epoca la formazione prevedeva soprattutto lo studio della danza classica – per noi il metodo Vaganova – e poi del contemporaneo di tipo prevalentemente storico. Soltanto nell’ultimo periodo ho studiato un contemporaneo un po’ più attuale con Susanna Sastro e quindi di matrice béjartiana.

Avendo percorso diverse strade durante la tua formazione cosa ti ha fatto poi scegliere di continuare nel contemporaneo?

Dopo aver conseguito il diploma decisi di partire per l’estero e di risiedere prevalentemente in Germania per studiare alla Folkwang Schule di Essen, dove compresi che la mia vocazione era la danza contemporanea e nello specifico quella tedesca. In quel periodo studiavo comunque diversi stili di danza dal classico, al contemporaneo fino al musical, perché in Germania la formazione del ballerino è a tutto tondo.

Considerando quindi che la Germania è la tua patria per la danza a quale filone della storia tedesca ti rifai?

Il mio punto di riferimento principale è sicuramente il tanztheater e il mio nume tutelare è Pina Bausch, non soltanto una coreografa, ma una filosofa, una studiosa, una persona che ha fatto una ricerca molto alta.

Riesci a mettere a fuoco quando c’è stata per te la migrazione dallo status di danzatore a quello di coreografo?

Si è trattato di un passaggio molto naturale perché per me l’essere artista ha una molteplicità di sfumature e quindi mi è venuto naturale, ad un certo punto, intraprendere questo nuovo linguaggio artistico.

C’è una scissione nelle tue creazioni tra il “significato”, inteso come messaggio, e “il senso artistico”, inteso invece come bellezza? Si osserva spesso nei lavori di alcuni tuoi colleghi la necessità di comunicare un messaggio a scapito però della cura per il dettaglio e del “bello”. Lo spettacolo appare allora fin troppo scarno e finisce per essere rozzo.

I due aspetti per me vanno di pari passo, il desiderio che ho di comunicare un messaggio si unisce a quello di far vivere allo spettatore una creazione artistica che sia frutto di un pensiero che non può essere legato soltanto al corpo del danzatore, ma a tutta una serie di altri parametri: disegno luci, scelta delle musiche.

Cosa ne pensi del pubblico napoletano che segue la danza contemporanea?

Si tratta di un rapporto che si sta costruendo. In generale la danza non ha tanto pubblico. Ci sono enormi difficoltà, ma rispetto al passato qualcosa si sta muovendo.

Spesso di fronte ad un lavoro di danza contemporanea il pubblico resta stranito e pare confuso dinanzi ad un messaggio che non ha compreso. Credi che il linguaggio utilizzato sia efficace e immediato o semplicemente la danza non per tutti?

Sicuramente il pubblico attuale ha l’abitudine di avere tutto subito e in maniera semplice e diretta. Da qui il pensiero che se qualcosa obbliga ad una ricerca più approfondita diventa automaticamente ostico e blocca. Ci sono però molti artisti che pretendono che il proprio linguaggio sia compreso a prescindere e allora a quel punto viene secondo me meno il rispetto per lo spettatore. Inoltre, così facendo, la mia necessità di comunicare non è soddisfatta se non riesco a far entrare il pubblico nel gioco.

Nei tuoi lavori permetti ai danzatori di collaborare in qualche modo alla tua creazione? Attingi elementi dalla loro sensibilità?

Certamente si. Ed è avvenuto proprio nella creazione del mio ultimo spettacolo “Nefes” andato in scena al Piccolo Bellini. Lo spettacolo è stato preceduto da mesi di laboratorio piuttosto che da vere e proprie prove come si è soliti fare. Durante questi incontri raccoglievo tutte le loro proposte che scaturivano per lo più da momenti di sperimentazione e improvvisazione.

I tuoi spettacoli sono strutturati per tutta la loro durata, oppure restano anche alcuni momenti improvvisati? Ti chiedo questo perché nel guardare Nefes ho avuto la sensazione di assistere a sessioni d’improvvisazione, soprattutto nelle parti di contact. E questo è un bene, perché, a mio dire, il contact funziona quasi esclusivamente quando cavalca l’onda della sensazione imminente, al contrario rischia di risultare forzato e finto.

In effetti lo spettacolo è strutturato, ma solo fino ad un certo punto. Per il resto ci sono momenti in cui, all’interno di paletti ben definiti, c’è la possibilità della libertà anche perché dopo mesi d’intenso lavoro c’è la reciproca comprensione di fino a che punto ci si possa spingere.

Come funziona la macchina organizzativa a Napoli?

Per la danza si fa sicuramente ancora molto poco. Ci sono gli spazi adatti, ma non c’è ancora un meccanismo in grado di far circolare in maniera fluida l’onda artistica che vuole girare, non solo in città, ma anche nel resto del territorio regionale e nazionale. Non c’è un accompagnamento da parte delle istituzioni affinché si possa lavorare bene. A me è successo che grazie alla creazione di una rete, quella dei “piccoli teatri metropolitani”, composta dal TAN, dal Piccolo Bellini, dall’Elicantropo, da Interno5 e dal De Poche, ha fatto sì che si attivasse un gruppo di lavoro attivo per gli spettacoli che necessitano di produzione. Questa struttura è quasi esclusivamente legata al privato.

Cosa ti ha fatto restare a Napoli?

In realtà non ho deciso di restare qui, si tratta solo di un punto fermo a cui fare riferimento. Come artista sono portato ad andare molto all’estero, ma torno a Napoli tra un viaggio e l’altro anche perché la napoletanità è sempre qualcosa di immenso da cui attingere.

I tuoi prossimi progetti?

Sto realizzando una nuova produzione per “Lavanderia a Vapore” nell’ambito di un progetto speciale intitolato “Motori di Ricerca”, dovremmo debuttare a Torino nel novembre 2014, a maggio sarò invece al Teatro Area Nord (TAN) per un progetto di residenza sviluppato insieme a Danza Flux, c’è poi un progetto in collaborazione con un regista, Orlando Cinque, su un testo di Strindberg “Il Pellicano” che porteremo a settembre all’interno del Festival “Benevento città spettacolo”. Sempre nel mese di maggio porteremo a termine un lavoro sul barocco in collaborazione con il coreografo inglese Anthony Lo -Giudice, ad agosto saremo invece ospiti al Tanzmesse di Düsseldorf con una presentazione di Nefes e di altri nostri lavori. In fine con Art Garage e Körper riporteremo alla luce “Movimentale” un festival che va avanti da cinque anni e che si svolgerà nella prima settimana di settembre.

Rivolgendoti ai tanti danzatori che girano tra audizioni e laboratori in cerca di un ingaggio in compagnie, cosa cerchi in un performer?

La persona, la capacità di esprimere la propria anima. Ho avuto la fortuna di lavorare sempre con danzatori tecnicamente molto bravi, ma si trattava di un di più, io cerco qualcuno in grado di rispondere a domande ben precise, a stimoli che toccassero l’anima. Ho fondato il Collettivo Nada, la mia compagnia, su questi presupposti. Cerco di stabilire una fiducia reciproca e uno scambio alla pari di idee, poi è ovvio che la decisione ultima spetta a me. Sono pur sempre il coreografo e il regista.

Per concludere, la mia domanda ricorrente, se non la danza cosa?

La cucina magari un ristorante basato sul concetto di cibo a Km zero e sull’alimentazione naturale che si richiama alla propria terra.

Ringraziamenti…

Voglio ringraziare i miei genitori che mi hanno sempre sostenuto, la mia famiglia artistica che è Interno5. Luca, Tommaso, Elisabetta, Manolo, Giuseppe, Valentina, Luisa, Davide, Stefano, Roberta, Francesco,  Alessandra e poi ancora Gennaro ed Emanuele. Sono coloro con cui ho condiviso tutto ed è giusto che li ringrazi.

In bocca al lupo Antonello, e che tu possa cercare sempre l’anima in ogni danzatore…

 Manuela Barbato

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