Maurizia Settembri

Maurizia Settembri è un’operatrice culturale di lungo corso. Dopo esperienze nazionali e internazionali prestigiose nel 1994 fonda, con Andrés Morte Terés, Fabbrica Europa, festival interdisciplinare di danza, teatro, musica, arti visive. Negli anni di direzione del Festival – ancora in corso – ha saputo interagire con network europei e intercontinentali, unendo competenze manageriali e visioni artistiche in un progetto che porta in Italia – a Firenze – artisti provenienti da tutto il globo anche con produzioni in prima assoluta.
In quanto membro di IETM – international network for contemporary performing arts e di altri progetti internazionali come il Paj Program della Japan Foundation ha intrecciato relazioni con operatori e artisti di tutto il mondo. È parte attiva nell’RTO della Nid Platform.

Per l’Inchiesta Covid 19 / Si cambia danza l’abbiamo raggiunta via Zoom per parlare della situazione che si prospetta nel prossimo futuro per il mondo dello spettacolo dal vivo.

Con i teatri chiusi e lo stop forzato di tutte le attività di spettacolo dal vivo gli artisti hanno cercato nuove forme di contatto e distribuzione, come l’uso delle tecnologie e delle piattaforme streaming. Lei ne ha fatto uso?

Non molto ma solo se strettamente necessario. Come spettatrice ancora meno, come direttrice di un festival mi sono chiesta fino a che punto posso e potrò utilizzare determinate modalità in via esclusiva. Per me la dimensione dal vivo non è mai stata messa in discussione.

Come Festival ha creato nuovi contenuti o ha trasportato in “digitale” alcune o tutte le attività in corso?

Entrambe le cose. Alcune attività fortunatamente anche nel 2020 siamo riusciti a realizzarle dal vivo, tra maggio e settembre, prima di quello che in fin dei conti è stato un secondo lockdown. È stato interessante però lavorare ad alcuni progetti il cui nodo centrale è diventato la documentazione. Mi spiego meglio: sul sito di Fabbrica Europa abbiamo raccolto in un archivio alcune esperienze di dialogo virtuale, dialoghi avvenuti tra artisti italiani e artisti dell’Africa o dell’Asia. Per noi ha significato molto.

C’è qualcosa tra i progetti visti esclusivamente in video negli ultimi due anni che le è piaciuto particolarmente?

Il Barbiere di Siviglia con la regia di Mario Martone.

L’assenza di pubblico determina nuove condizioni artistiche? Nuove sperimentazioni?

Sì, per alcuni sono arrivate delle sperimentazioni molto felici, per altri meno. Ma è normale. L’assenza comunque rimane assenza, è qualcosa in meno, viene meno tutta l’energia che spettatori e artisti si scambiano tra loro. Io, fin quando abbiamo avuto la possibilità di lavorare alla Stazione Leopolda di Firenze, ho sempre ritenuto molto vincente il fattore partecipativo che era molto diverso da quello di un teatro comune. Le vibrazioni erano molto forti. Per questo io credo che quel valore di presenza sia insostituibile. Altra cosa è se parliamo di cinema, un tipo di arte riprodotta che può emozionare lo stesso o anche di più ma che ha modi e tempi – e spesso anche soldi – molto diversi.

L’esperienza della pandemia ha cambiato il suo modo di lavorare? C’è qualcosa di nuovo che ha scoperto riguardo il suo lavoro?

Sì, è stato inevitabile. Ho riscoperto il valore dello “stare all’aperto” e in questo sono fortunata visto che la nostra sede di trova nel parco delle Cascine di Firenze. Da questa condizione ho cercato di lavorare per inserire la fruizione all’aperto come condizione da adottare per la programmazione e la progettazione degli eventi. La cosa positiva è che molti nel settore dello spettacolo dal vivo hanno grande spirito di adattamento e io me lo riconosco.

Cosa ne pensa della distribuzione in streaming dello spettacolo dal vivo? E’ un’attività che ha un futuro?

Non per lo spettacolo dal vivo vero e proprio. Lo streaming – comunque le attività digitali, le trasmissioni in video – nel nostro settore possono essere molto utili per attività collaterali: conferenze, incontri, etc. Lo spettacolo vero e proprio è una magia da vivere, dunque dal vivo.

Secondo lei dopo l’esperienza della pandemia il mondo dello spettacolo dal vivo continuerà a usare alcuni strumenti usati sia nel 2020 che nel 2021? Che tipo di rapporto ci sarà tra la performance dal vivo e le forme di riproduzione e distribuzione che abbiamo sperimentato?

Secondo me si lavorerà di più in modo interdisciplinare e con dei tempi diversi, tempi di produzione e creazione. Io sono positiva per natura quindi penso che dalle situazioni più drammatiche può nascere sempre qualcosa di buono. Mi auguro che lavoreremo tutti meglio. C’è sicuramente molta voglia di fare, ancora più e meglio di prima.

Il rapporto con il pubblico: è cambiato? In che modo?

Il pubblico non è più un’unità statica. Dobbiamo considerarlo come qualcosa di dinamico, con una vita e pensieri propri, per questo sono sempre a favore di quelle azioni che definiamo di “accompagnamento” alla visione. Il pubblico, nel caso di Fabbrica Europa, ha fatto un percorso proprio come noi, di crescita e di consapevolezza partecipativa. Credo – e spero – che nel prossimo futuro ci sarà ancora più disponibilità, saremo più grati per le cose che potremmo fare di nuovo. Rispetto alla danza e all’arte dal vivo mi viene da pensare che starà anche a noi, come operatori, di fare la nostra parte nelle scelte e nelle strategie di programmazione e produzione artistica.

Secondo lei lo spettacolo dal vivo è qualcosa di indispensabile alla vita sociale delle persone?

Assolutamente sì. Fa parte della storia dell’uomo e contribuisce alla formazione di tutti come cittadini.

Quali sono stati – e sono ancora – i pericoli e le opportunità di questa crisi legata alla pandemia secondo il suo punto di vista?

Il pericolo è certamente quello di non cogliere e non riconoscere le criticità, anche preesistenti, per risolvere. L’opportunità potrebbe essere un generale ripensamento della produzione e della promozione delle discipline artistiche, incentivando le collaborazioni tra tutti gli operatori del settore.

Le problematiche della gestione economico-amministrativa per i singoli artisti, le imprese e gli operatori sono una realtà con cui è necessario fare i conti. Quanto tempo, energie e risorse queste portano via al suo impegno professionale?

Nel caso di Fabbrica Europa posso dire che prima eravamo una cooperativa e adesso una fondazione. Tutti, me in primis, mettiamo tanta energia nello svolgimento del lavoro, la filiera è complessa ed è necessario non solo avvalersi di buon team ma anche che quel team faccia squadra comune. Ognuno deve impegnarsi per il proprio obiettivo come singolo e come squadra. Questo è già un buon punto di partenza per la gestione delle imprese artistiche.

La distribuzione territoriale delle risorse ha una parte decisiva nella vita artistica. Ritieni che la sua regione di riferimento sia adeguatamente sostenuta dalle risorse pubbliche (nazionali e locali)?

La Toscana ha una serie di attrazioni artistiche e culturali che non necessitano di presentazioni ma che ugualmente richiedono sostegno. Io credo che si possa fare molto di più per tutti.

Il sistema dello spettacolo dal vivo, e più ancora il settore della danza, sembrano molto poco conosciuti dal pubblico, dai media e soprattutto dai decisori politici. Cosa pensa si potrebbe/dovrebbe fare al riguardo?

Negli anni ho visto sempre meno valorizzata e tutelata la figura del giornalista di spettacolo. Se ci riflettiamo quella potrebbe essere una figura chiave che, mediante una professionalità, potrebbe richiamare l’attenzione verso un intero settore. Ci sono ottimi giornalisti, ottime penne ma quasi sempre devono ricorrere ad altre professioni perché i compensi dei giornalisti non possono essere considerati tali. Anche per quanto riguarda la televisione e i media di messa, con le giuste professionalità ben valorizzate si potrebbe dare molta visibilità al sistema.

I teatri non programmano (o programmano pochissimi) spettacoli di danza. Perché?  C’è una distinzione fra teatri pubblici e privati da questo punto di vista?

Non c’è una grande distinzione, la distinzione vera è tra i fondi pubblici e i bilanci generali delle strutture. Quasi sempre i teatri hanno all’interno della loro programmazione una sotto- programmazione – in forma di festival o rassegna – di danza. Per ribaltare questo discorso bisognerebbe destrutturare e abbattere dei paletti che sono esclusivamente culturali e di gestione politica dell’arte e della cultura. Si può fare ma devono impegnarsi e volerlo tutti per davvero.

Spesso si dice che la danza ha poco spazio nelle programmazioni dei teatri perché ha poco pubblico. Secondo lei è vero?

No, non è vero. In Italia gli esempi virtuosi che mi vengono in mente sono Reggio Emilia e Torino. Il pubblico c’è, si fa una grande lavoro in termini di scelta e promozione e il pubblico c’è.

Lei che tipo di pubblico auspica per il suo festival?

Curioso, attento. Devo ammettere che è già così ma si può sempre migliorare e crescere. Negli ultimi anni abbiamo investito in comunicazione e questo ha dato alcuni frutti. A Firenze abbiamo un pubblico sia giovane, fatto da moltissimi studenti che frequentano le università a Firenze – per esempio, sia più adulto. Inoltre, la presenza femminile è sempre più consistente di quella maschile.

Rispetto alla formazione della danza ritiene che in Italia ci sia un sistema formativo adeguato alle esigenze degli artisti e delle imprese?

Ci sono esperienze positive, come la Scuola Paolo Grassi a Milano e poche altre. Credo che le attività laboratoriali di prestigio e adeguate a una formazione di alto profilo ci siano, esistono… ma non sono istituzionalizzate.

Se improvvisamente avesse il potere di risolvere i problemi del mondo della danza che cosa farebbe per prima cosa?

Farei case della danza in ogni regione, per formazione e produzione.

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