New York City Ballet: Sterling Hyltin and Robert Fairchild with troupe members in “Apollo” at Koch Theater.Credit...Andrea Mohin/The New York Times

Secondo Wikipedia Italia, “enciclopedia libera e collaborativa”, il coreografo è “il creatore delle coreografie o composizioni delle danze. […] Per diventare bravi coreografi è necessario aver maturato una lunga esperienza come danzatori lavorando con maestri e coreografi di buon livello, ma la capacità di comporre danze è anche una dote innata, paragonabile a quella di un poeta, di un pittore e di un compositore di musica.”

In questa definizione vengono contrapposti due aspetti della formazione del coreografo, quella per cui si acquisiscono conoscenze e competenze sul campo ed in via diretta da un bravo maestro o altro coreografo, e quindi per la quale sembrerebbe possibile imparare a diventare un coreografo, e quella che antepone il concetto di talento innato che porta poi alla creazione artistica, per cui il coreografo o altro artista ha abilità e caratteristiche dalla nascita che lo faranno diventare tale.

E’ proprio così?

George Balanchine (1904/1983), nato Georgij Melitonovič Balančivadze, è stato un talento coreografico precoce: compose la sua prima coreografia, il passo a due “La Nuit” su musiche di Anton Rubinstein, danzata da sé stesso e Tamara Geva (1906/1997), nel 1920, all’età di 16 anni. Nel 1924, a venti anni, diviene coreografo dei “Ballets Russes”, grazie all’eccezionale intuito di Segej Djagilev (1872/1929) che lo volle al suo fianco in quella straordinaria impresa. Qualche anno dopo, nel 1928, a 24 anni, aveva già coreografato “Apollo” sulle musiche di “Apollon Musagète” di Igor Stravinsky regalandoci un capolavoro assoluto, una pietra miliare, uno spartiacque della coreografia contemporanea e lo stile neoclassico trova in Balanchine il suo principale artefice.

In più d’una occasione, il critico Vittoria Ottolenghi (1924/2012), dopo aver visto uno spettacolo di danza, commentava: “Balanchine la sua prima coreografia l’ha fatta a 16 anni”, non tanto a dire che coreografi si nasce, ma per sottolineare che l’impulso alla coreografia difficilmente è tardivo perché corrisponde ad un bisogno, ad una urgenza di cui non si può fare a meno, e che bisogna cimentarsi presto con la coreografia stessa, provando e sperimentando fin da giovanissimi.

Quindi Balanchine era un talento innato?

Sebbene dettato dall’urgenza di creare, il genio coreografico di Balanchine non venne dal nulla, ma da un ambiente familiare, una formazione ed uno studio della danza, della musica e dell’arte che fu ampio, approfondito, fatto di qualità e quantità oltre che con Maestri di primo piano, così come dal contesto storico e politico che ha attraversato. Dall’ambiente.

Figlio del noto compositore georgiano Meliton Balanchivadze (1862-1937), con una madre “ballettofila”, Maria Nikolayevna Balanchivadze (1837/1897), nata Vasilyeva, che considerava il balletto come una forma di progresso sociale, ed un fratello, Andrei Balanchivadze (1906-1992), anch’egli noto compositore georgiano, Balanchine inizia a studiare pianoforte all’età di cinque anni e nel 1913, a nove anni, si iscrive alla Imperial School of Ballet del Mariinsky Theatre, scuola principale del Balletto Imperiale russo, studiando con Pavel Gerdt (1844/1917 ), premier danseur noble dei Teatri Imperiali e Samuil Andrianov, ballerino e Ballet Master.

Tamara Geva and George Balanchine, 1923 -Fonte: oregonballettheatre.wordpress.com

Nel 1917, con la vittoria dei bolscevichi nella Rivoluzione Russa (1917/1921), il Teatro viene chiuso e la Scuola di Ballo evacuata poichè vista simbolo del potere zarista. Per sopravvivere alla fame ed alla legge marziale, Balanchine suona il pianoforte nei cabaret e nei cinema muti, spesso in cambio di cibo. La Scuola Imperiale di Balletto riapre nel 1918 come Scuola Statale di Balletto Sovietico e Balanchine, ripresi gli studi, diviene l’allievo preferito di Grigory Grigorevich (1811/1893), ispettore della scuola e vicepresidente dell’Accademia Imperiale delle Arti. In questo periodo, inoltre, insegna ballo da sala al Mariinsky Theatre School dove incontra Tamara Geva che in seguito diventerà la sua prima moglie. Per sbarcare il lunario, i due si esibiscono in piccoli teatri eseguendo danze coreografate da Balanchine e musiche cantate dalla Geva, accompagnata al pianoforte dallo stesso Balanchine. Non ci deve quindi stupire se il suo ampio repertorio coreografico è stato capace di travalicare generi e confini. Diplomatosi con lode nel 1921 come uno dei migliori studenti, Balanchine inizia a ballare al Mariinsky le coreografie del Grande Repertorio Classico di Marius Petipa come Don Chisciotte, Bella Addormentata, Paquita, Lo Schiaccianoci; anche se, non avendo le phisique du role del principe, poiché non era molto alto, non da protagonista. In quello stesso anno, si iscrive al Conservatorio di San Pietroburgo per studiare pianoforte e composizione musicale, riuscendo a far conciliare gli impegni di ballerino del Teatro Accademico di Stato per l’Opera e il Balletto (GATOB), il Balletto del Mariinskij, con lo studio della musica. I complessi studi al Conservatorio comprendevano pianoforte, teoria musicale, contrappunto, armonia e composizione e gli diedero una formazione musicale completa ed approfondita che gli permise di poter dialogare allo stesso livello di compositori della statura di Igor Stravinsky durante la creazione delle sue coreografie. Inoltre, diplomatosi nel 1923 anche al Conservatorio, cominciò a comporre musica e fu membro dell’orchestra fino al 1924. Così, giusto per dire.

E’ evidente che anche se Balanchine fosse stato dotato di un talento coreografico innato, allo stesso tempo è stato capace di condensare in sé un mix superlativo di studio, ambiente familiare, esperienza, ricerca, pratica professionale, lavoro, contaminazione tra i generi, contatto con maestri, manager ed artisti di altissimo profilo. Inoltre il momento storico, politico e culturale in cui ha vissuto, così come le sue scelte chiare e determinate, hanno avuto un’importanza fondamentale nella definizione di sé stesso, oltre ad aver nutrito e fatto emergere il suo talento, facendo di lui un genio senza tempo della coreografia.

Quindi, coreografi si nasce o si diventa?

Come nasce il talento

I neuroscienziati da tempo stanno cercando di mappare il nostro cervello e le sue diverse funzioni cerebrali specifiche. Queste ricerche dimostrano come le definizioni e confini di queste regioni siano molto complessi e variabili e che le categorie delle funzioni mentali, come percezione, memoria, attenzione, riflettono della sensazione che noi abbiamo di esse e di noi stessi, e che quindi possono generare conclusioni ingannevoli sul modo in cui funziona il nostro cervello.

Come nuovi “cartografi”, grazie alla ricerca ed alla sperimentazione continua, i neuroscienziati stanno individuando i domini ed i territori del nostro cervello, oltre ai collegamenti tra le varie aree con le loro caratteristiche e le loro eventuali delimitazioni, partendo dalla consapevolezza che le strutture cerebrali sono ciò che vi è di più complesso nell’essere vivente e che la nostra conoscenza è in gran parte ancora carente, data la massa delle interconnessioni tra i neuroni delle varie parti del cervello e la difficoltà di isolare funzioni specifiche ad aree anatomiche.

Grazie alla risonanza magnetica funzionale che permette di vedere quale area del cervello si attiva, si “accende” mentre ci si muove o si pensa qualcosa, oggi è possibile vedere “in diretta” cosa accade nel nostro cervello, anche nelle zone più inesplorate come il sistema limbico che controlla e gestisce le nostre emozioni e sensazioni, ovvero la parte più profonda ed arcaica del nostro cervello.

Brain imaging – MRI (Magneti resonance Imaging) 

Stiamo scoprendo le Americhe? Molto di più.

Oggi le neuroscienze ci dicono che esisterebbe un area cerebrale del talento con vasti collegamenti con le strade e le autostrade del nostro cervello, “il cosiddetto cervello antico, cioè l’area limbica – detta anche “zona solare”- dove si accende la scintilla della creatività.” (1)

I comportamenti creativi sono certamente tra i comportamenti più complessi in cui un essere umano possa impegnarsi e coinvolgono non solo il dominio relativo a quella specifica abilità, ma anche domini generali come la capacità di elaborazione e la spinta emotiva alla creazione stessa. Una mentalità creativa si distingue per una serie di processi e sotto-processi come la capacità di focalizzare e defocalizzare l’attenzione, di generare variazioni e selezionarle, di regredire ai tipi di processo primario della coscienza, di cercare nella memoria in modo spontaneo o deliberato come di farlo usando processi di ricerca cognitivi o emotivi.

Se i comportamenti creativi vengono ancora visti nel senso comune come indecifrabili, grazie alla ricerca neuroscientifica il comportamento creativo viene considerato oggi come la capacità di produrre cose ed idee nuove ed allo stesso tempo utili. Sembrerebbe quindi che la creatività e l’arte abbiano sfumature diverse dato che l’arte può anche non servire altro che a sé stessa. O anche no.

Naturalmente queste scoperte, che meriterebbero ben più ampio spazio ed approfondimento, ci dicono sostanzialmente una cosa: quello che sappiamo ad oggi sul nostro cervello è ancora molto poco rispetto a quello che sapremo domani ed è sicuramente molto poco rispetto a quello che siamo.

Ma una scoperta fondamentale, ormai data per assodata, è che il nostro cervello è plastico, ovvero che non è mai uguale a sé stesso, e che si adatta in base alle circostanze e all’apprendimento. Concetto semplice e allo stesso tempo molto complesso, la plasticità cerebrale o neuronale, la “neuroplasticità”, ha rivoluzionato il nostro modo di vedere l’essere umano nel mondo e può essere definita come la potenzialità del cervello di variare funzione e struttura non solo durante il suo periodo di sviluppo ma anche durante la vita adulta, e che comprende la capacità di svilupparsi secondo i centri di interesse che ogni individuo esprime nel corso della sua esistenza. Un organo in continuo divenire il cui primo e più importante “talento” è la capacità di imparare, di apprendere sempre cose nuove e diverse lifelong, per tutta la vita. Tutto questo è quindi molto lontano da idee obsolete ed imprecise secondo cui è già tutto “scritto” nel DNA, il quale determina il nostro destino ed il nostro eventuale “talento”, e che il nostro cervello può solo regredire ed invecchiare.

In natura nulla è statico e predefinito, perché dovrebbe esserlo il nostro cervello? La capacità del nostro cervello di rigenerarsi in base alle proprie esperienze apre scenari sempre più interessanti. Ed in quanto organismi viventi, continuiamo ad adattarci lifelong alle circostanze e agli stimoli che provengono dall’esterno. Il continuo progredire di un danzatore, di un atleta, di un musicista, così come di uno scienziato, viene inesorabilmente attribuita al talento, elemento indefinito e sconosciuto che, pare, pochi hanno e la maggior parte non possiede. E non, come in effetti è, alla continua pratica, al continuo allenamento, alla continua “esposizione” a stimoli di qualità.

La plasticità del cervello rende superfluo ricorrere al concetto di “talento” come elemento innato poiché è oramai dimostrato che il nostro cervello è costantemente modellato dall’esperienza e dal cambiamento, nella sua struttura ed organizzazione, man mano che sperimentiamo, impariamo e ci adattiamo.

“Con ogni ripetizione di un pensiero o di un’emozione, rafforziamo un percorso neurale – e con ogni nuovo pensiero, iniziamo a creare un nuovo modo di essere. Questi piccoli cambiamenti, ripetuti abbastanza frequentemente, portano a cambiamenti nel modo in cui il nostro cervello funziona. La neuroplasticità determina che elaborare un pensiero o svolgere un’azione non costituiscono un evento statico. Si forma una “memoria”, per così dire, rafforzandosi nel tempo. In fin dei conti, è il principio dell’allenamento, dell’apprendimento. E più una parte del cervello viene stimolata, più quella parte diventa forte. In termini ancora più pratici: le connessioni all’interno del cervello diventano costantemente più forti o più deboli, a seconda di ciò che viene utilizzato… In termini scientifici, il processo di neuroplasticità non è un processo rapido o semplice; piuttosto si svolge per tutta la vita e può coinvolgere altri processi. Oltre ad alterare le sinapsi neurali e i relativi percorsi, può comportare cambiamenti nei neuroni, nelle cellule vascolari e nelle cellule della glia. La neuroplasticità va di pari passo con la “potatura sinaptica“, che è la modalità in cui il cervello cancella le connessioni neurali che non sono più necessarie o utili e rafforza quelle necessarie. Il modo in cui il nostro cervello decide quali connessioni potare dipende dalle vostre esperienze di vita e da quanto recentemente sono state utilizzate le connessioni. Allo stesso modo, i neuroni che si indeboliscono a causa del sottoutilizzo muoiono attraverso il processo di apoptosi. In generale, la neuroplasticità è lo strumento con il quale il cervello perfeziona la propria efficienza”.(2)

È ormai dimostrato che i nostri neuroni possono rigenerarsi sempre, modificando il nostro cervello e di conseguenza le nostre abilità, e non è del tutto vero che possiamo imparare solo da piccoli. Forse siamo noi che ad un certo punto non desideriamo più imparare, andare avanti, cambiare, creare cose nuove e diverse. La spiegazione più semplice potrebbe essere che da adulti preferiamo rimanere nelle nostre certezze e facciamo fatica ad ammettere che possiamo andare oltre. La paura di sbagliare, di sentirci inadeguati, l’imbarazzo, prendono il sopravvento e ciò ci rende insicuri, fino a che l’insicurezza diventa una chiusura verso nuove esperienze e nuove conoscenze. Oppure siamo convinti, o ci hanno convinto, che non avendo intrapreso determinate abilità da piccoli, queste ci saranno precluse per sempre. Ci irrigidiamo, ci congeliamo, mentre il nostro cervello è e rimane plastico per tutta la vita. Oppure, poiché siamo stati educati nella convinzione che con il talento si nasce, non proviamo neppure a sperimentare noi stessi. Invece il gioco della conoscenza è un gioco che può durare tutta la vita, per il quale è sufficiente avere un po’ di curiosità e motivazione. Quando siamo bambini poco importa se cadiamo e ci sbucciamo il ginocchio, l’importante è giocare.

Un altro elemento da evidenziare è che un bambino non può scegliere il proprio habitat, è “confinato” in un ambiente di vita deciso da altri, dagli adulti, ed è all’interno di quell’ambiente che il suo cervello prende forma tramite un certo tipo di esperienza. Sono quelle esperienze che portano quel bambino verso uno sviluppo piuttosto che un altro e che faranno sviluppare le capacità di interazione con il mondo. Un adulto,al contrario, generalmente può scegliere l’ambiente in cui vivere e quindi può decidere di mettere a frutto la sua plasticità, così come di ignorarla.

Allo stesso tempo è in maggior misura da bambini che l’esperienza risulta essenziale per il corretto sviluppo di un dato circuito o di un insieme di circuiti neurali. Il cervello presenta infatti un grado di plasticità nell’infanzia più elevato, che non si raggiunge più negli anni successivi e l’apprendimento da bambini è molto più efficace, soprattutto per quanto riguarda l’apprendimento motorio. Questa condizione, definita “periodo critico”, si traduce in una serie di finestre temporali che si aprono e si chiudono nell’arco della nostra esistenza e che sono particolarmente frequenti da piccoli.

Durante la fase di sviluppo, “la maturazione è guidata in maniera istruttiva dalla stimolazione ambientale e i fenomeni di plasticità neurale si manifestano ai massimi livelli. Da un punto di vista comportamentale, essi rappresentano finestre temporali durante le quali le capacità di percepire ed elaborare le informazioni provenienti dal mondo esterno, ma anche le attitudini sociali e cognitive, sono modellate e possono essere facilmente alterate dall’esperienza. Gli effetti deleteri derivanti dalla mancanza di un’esperienza ambientale appropriata non possono essere contrastati, se non ripristinando un’opportuna forma di stimolazione prima del termine dello stesso periodo critico. I periodi critici iniziano in momenti diversi dello sviluppo e hanno durata differente a seconda della regione cerebrale che si prende in considerazione; inoltre, l’estensione dei periodi critici cambia tra le specie animali ed è direttamente proporzionale all’aspettativa di vita.” (3)

I periodi critici sono caratterizzati da una particolare sensibilità alle esperienze, in cui questi circuiti sono maggiormente sensibili alle stimolazioni prodotte dalle esperienze stesse, grazie alle quali continueranno a svilupparsi in modo appropriato. Inoltre, crescendo, quegli schemi che non vengono sollecitati verranno “potati”, fenomeno del “pruning”, e l’esperienze fatte non avranno più lo stesso effetto su di noi. Quindi, se i circuiti cerebrali non sono stati sollecitati adeguatamente durante queste finestre di opportunità, potrebbe essere difficile recuperare in seguito. Un’infanzia in un ambiente ricco di stimoli che possa permettere di attivare al meglio i nostri periodi critici, è fondamentale per sviluppare appropriate competenze sociali, così che l’effetto dell’ambiente risulta essere prevalente durante i primi anni di vita.

Fondamentalmente, sebbene i periodi critici siano presenti prevalentemente durante l’infanzia, anche da adulti si possono acquisire nuove abilità. La differenza non risiede tanto nella qualità dell’apprendimento, ma nella velocità con cui possiamo continuare ad apprendere.

Talento ed allenamento: la “pratica deliberata”

Scott Barry Kaufman (1979) è fondatore e direttore del Center for the Science of Human Potential ed è Honorary Principal Fellow presso il Centre for Wellbeing Science dell’Università di Melbourne. E’ stato professore alla Columbia University, alla Yale, alla New York University, all’Università della Pennsylvania dove ha insegnato psicologia positiva, con al suo attivo libri e articoli scientifici su intelligenza e creatività, un MPhil di Cambridge, un PhD di Yale e tanto altro ancora. Ebbene, fino ai 14 anni è stato considerato un bambino “ritardatario”, ha ripetuto la terza elementare ed ha frequentato una scuola speciale per bambini con difficoltà di apprendimento. Lui stesso dichiara di essere stato nutrito con un flusso costante di basse aspettative.

Poi, a 14 anni, grazie ad un insegnante che seppe guardare oltre, scopre di avere delle potenzialità. Come prima cosa, decide di iniziare a suonare il violoncello, e grazie al nonno, affermato violoncellista dell’Orchestra di Filadelfia, si misero subito al lavoro con l’obiettivo di entrare nell’orchestra della scuola superiore, iniziando quella che lui stesso definisce una “immersione nella pratica”. C’era qualcosa nel violoncello, nella struttura della musica classica, che sembrava legarsi al cervello di Scott. Infatti, dopo pochi mesi di quella che lui stesso definisce “focused practice”, raggiunge il suo obiettivo entrando con successo nell’orchestra, riuscendo a superare anche chi aveva iniziato a suonare anni prima di lui.

Scott Barry Kaufman canta il karaoke – Photograph: Brian Edward Berman

Come è stato possibile?

In un articolo apparso su The Guardian nel luglio 2013 (“What is talent – and can science spot what we will be best at?”), Scott Barry Kaufman riflette, ripercorrendo la sua vita, che la società e l’istruzione tendono a ritenere che il talento sia innato, o per lo meno debba essere sviluppato da giovani, se non da piccoli. Ma non è proprio così.

Secondo l’attuale ricerca scientifica, sembrerebbe proprio il contrario, eccetto che per alcuni rarissimi casi. Poiché il talento è molto più vicino al giusto allenamento da portare avanti costantemente piuttosto che all’innatismo, e che comunque questi due aspetti – talento/allenamento – sono molto più intrecciati e collegati di quanto si possa immaginare.

Una vasta ricerca condotta dallo psicologo cognitivo K. Anders Ericsson (1947/2020), professore alla Florida State University, e dai suoi colleghi, ha dimostrato che il talento è un insieme di molteplici fattori, in cui competenze ed allenamento, o meglio quella che oggi viene definita la “pratica deliberata” – “deliberate practice”, si integrano in quel modo unico che viene definito “talento”.

Ericsson, riconosciuto a livello internazionale come ricercatore sulla natura psicologica delle competenze e delle prestazioni umane, ha scoperto che l’estensione, l’ampiezza, lo spessore e la profondità delle competenze vengono in genere acquisite attraverso 10 anni di pratica deliberata, in cui un individuo motivato si sforza costantemente di imparare dai feedback che riceve e si impegna in esercizi mirati con la guida di un mentore competente che lo porti a spingersi oltre i propri limiti.

“La regola dei 10 anni”, studiata da ricercatori, psicologi ed esperti delle prestazioni in molti campi che vanno dalla medicina, alla scrittura, alla musica, all’arte, alla matematica, fino alla fisica ed allo sport (la danza no, mi dispiace, non viene mai citata), ha dimostrano che una performance d’eccellenza si raggiunge con circa 10 anni di pratica deliberata, che a un danzatore o un coreografo non sembrano poi così tanti, anche se la quantità e la qualità di quello che si fa è determinante. Da qui sembrerebbe che ci sia del vero nella famosa frase attribuita a Totò nessuno nasce imparato“, libera traduzione, per quanto possibile, del detto latino “nemo magister natus“.

Gli ingredienti basilari della pratica deliberata sono una costante determinazione a migliorarsi tenendo sempre ben presenti gli errori del passato, attivare al massimo il meccanismo di feedback, avere a disposizione un ottimo maestro, che sia in grado di individuare i nostri limiti per spingerci oltre, ed in molti casi essere sostenuti da un contesto familiare motivante ed aperto. Inoltre, nei limiti del possibile, avere condizioni economiche che permettano tanti anni di studio. Un mix ampio e completo di fattori qualificati e qualificanti.

Infatti, la pratica deliberata non vuol dire solo allenarsi, vuol dire qualità dell’allenamento oltre alla quantità, concentrandosi su quello che non si sa fare, esplorando “l’ignoto” e per fare meglio quello che già si sa fare bene, impegnandosi ad estendere sempre più l’ambito delle proprie capacità oltre la propria safety zone. Quindi, secondo la teoria di Ericsson, sembrerebbe che gli artisti si “costruiscono” e che non vengono fuori dal nulla.

Allo stesso tempo, si deve considerare che se la pratica deliberata è certamente una parte importante di quello che chiamiamo “talento”, non ne è comunque l’unico elemento. E che, come tutte le teorie, anche questa ha i suoi detrattori. 

Alla pratica deliberata si aggiungono altri fattori, come la motivazione a praticare, la passione per quello che si fa, la tenacia, la perseveranza, la capacità di trarre elementi positivi dall’insuccesso, la concentrazione verso l’obiettivo che si è deciso di raggiungere, il temperamento, il carattere, la fisicità intesa come corporeità. Ed è per questo che alcune persone sembrano imparare in un particolare ambito più velocemente di altre. Perché è veramente complesso riuscire a mettere insieme tutti questi elementi.

La “regola dei dieci anni”, più che come una regola assoluta, deve essere intesa come un’indicazione di massima, una “regola” soggettiva, così come può essere considerata una media del tempo che può essere necessario a raggiungere una expertise di livello qualitativo elevato. Se prendiamo due persone con la stessa quantità di pratica deliberata, tra di loro ci saranno certamente differenze nelle loro capacità di apprendimento e quindi nelle loro prestazioni, anche nel medesimo contesto. Persone diverse o molto vicine anche geneticamente, ad esempio due gemelli, inserite nel medesimo contesto di apprendimento procedono a velocità diverse, proprio perché il “talento” è un fattore talmente complesso anche nelle sue sfumature, che gli elementi che si devono combinare, intrecciare ed amalgamare insieme sono veramente molti e qualitativamente molto elevati.

La pratica deliberata

Dal 2010 in poi ed in vari e recenti articoli accademici, David Zachary Hambrick, professore di psicologia alla Michigan State University dove insegna Cognition and Cognitive Neuroscience, con i suoi colleghi ha scoperto che la pratica deliberata spiega solo il 30% delle differenze nelle valutazioni delle prestazioni negli scacchi e nella musica, lasciando la maggior parte della variazioni come ancora non spiegata e dovuta ad ulteriori fattori. Uno di questi fattori/varianti sembrerebbe essere la working memory capacity – WMC cioè la capacità di memoria da lavoro che si andrebbe ad aggiungere alla pratica deliberata nello studio della musica, come ad esempio la capacità di lettura al pianoforte e degli scacchi. Questo vuol dire che due musicisti, anche fratelli o addirittura gemelli e quindi con un patrimonio genetico in comune, posti nel medesimo contesto di apraticdeliberata avranno risultati diversi che potranno essere determinati da altri fattori, come la capacità di memoria da lavoro.

Il talento come package

Brooke Macnamara, Associate Professor Cognitive Psychology alla Case Western Reserve UniversityDepartment of Psychological Sciences, sta conducendo ricerche nell’ambito delle differenze individuali nelle abilità cognitive, ad esempio la capacità di memoria di lavoro e l’intelligenza fluida. Il suo lavoro indaga prestazioni umane complesse come l’acquisizione di abilità, risultati e competenze. Inoltre è interessata al predictive factor, ai fattori che possono aumentare lo sviluppo di una condizione umana, e alle differenze individuali nelle capacità cognitive come il controllo cognitivo, così come alle differenze individuali nell’esperienza come la pratica deliberata. E soprattutto in che misura i fattori esperienziali possano differenziare la variazione delle prestazioni, o come le convinzioni e la mentalità di ciascuno siano un fattore di previsione di un risultato.

In uno studio pubblicato nel 2019, Macnamara dichiara «Quando si tratta di capacità umane, entra in gioco un complesso insieme di fattori ambientali e genetici che, messi insieme, spiegano la differenza di risultati anche a parità di pratica».(4) Nel suo studio sui violinisti, la Macnamara dice di non aver trovato grandi correlazioni tra bravura e ore di pratica. E ha aggiunto: «Nella maggior parte dei casi, l’allenamento ti rende migliore di come eri ieri. Ma potrebbe non renderti migliore del tuo vicino. O di quell’altro ragazzo che frequenta la tua stessa lezione di violino». (5)

Per cui sembrerebbe che è dall’interazione tra geni ed ambiente che si crei quella miscela che, sempre con un allenamento costante, ti porta a renderti migliore di ieri. O a tutti questi fattori combinati tra loro, dato che il talento è multifattore.

Se abbiamo compreso che per imparare a suonare il violino o il pianoforte o la danza classica ci vuole studio e sacrificio e ci si deve “allenare”, cosa mai dovrà fare il coreografo, quello che la danza crea? Più o meno la stessa cosa, “allenarsi” alla creazione, avere frequenti opportunità di creare e di portare avanti l’intero processo coreografico, fino alla messa in scena, fino a presentare il proprio “prodotto” al pubblico. Che in effetti è un pò come dire che per diventare coreografi si deve coreografare: “The only way to do it is to do it“, famosa frase attribuita a Merce Cunningham, come pure ad Amelia Earhart. O ancora meglio la frase attribuita ad Aristotele ” Ciò che dobbiamo imparare a fare, lo impariamo facendolo”.

Nel sentire comune, ancora oggi, l’artista nasce artista grazie ad un talento innato. E questo modello di pensiero fa sì che si sottovalutino l’importanza del contesto storico, politico, economico, sociale, che non sempre è pronto ad accoglierlo e sostenerlo, e l’importanza della cultura.

Sarebbe importante per l’arte, come per qualsiasi ambito della ricerca, saper venire fuori dalla rappresentazione classica della mente brillante tout court, dell’artista borderline, così come dalla narrazione di “genio e sregolatezza”, cara ancora ad alcuni artisti. Questa è ormai una leggenda da sfatare.

Continuare a pensare che il talento sia “innato” ci solleva come società, come politica, come educatori, come ambiti familiari, dalla responsabilità di “costruire” talenti in ogni campo, dall’arte alla coreografia, dallo sport alla ricerca scientifica. E’ la visione delle capacità creative dell’essere umano che deve cambiare, insieme alla visione dei modi che una cultura ed una società hanno di divenire “attivatori” del processo creativo.

Eppure si può e si deve. 

CITAZIONI e FONTI

  • “Il talento: che cos’è” – riza.it (1)
  • Filippo Ongaro, “I segreti della neuroplasticita: come il nostro cervello si adatta e cresce” – metodo-ongaro.com (2)
  • “Periodi critici” – treccani.it (3)
  • “La regola delle 10mila ore è una balla” – il post.it (4)(5)
  • Joanna Cepelewiz, “Il cervello non pensa come pensate” – lescienze.it
  • Giovanni Hausmann, “Il Cervello. Storia, finalità, talento e intelligenza” – neuroscienze.net
  • Valerio Rubino, “L’importanza di geni ed ambiente nello sviluppo dei disturbi mentali e nei diturbi del neurosviluppo” – valeriorubino.com
  • Valerio Rubino, “L’importanza di geni ed ambiente nello sviluppo dei disturbi mentali e nei diturbi del neurosviluppo” – valeriorubino.com
  • Antonella Porfido, “La pratica deliberata è tutto” – nuovoeutile.it
  • Scott Barry Kaufman, “What is talent – and can science spot what we will be best at?” – theguardian.com
  • Brooke Macnamara – Case Western Reserve University – psychsciences.case.edu
  • David Z. Hambrick ed altri, “Deliberate practice: Is that all it takes to become an expert?” – sciencedirect.com

BIBLIOGRAFIA

  • Antonio Cerasa, “EXPERT BRAIN – Come la passione del lavoro modella il nostro cervello”, Franco Angeli, 2017
  • Steven Pinker, “Come funziona la mente”, Castelvecchi, 2019
  • Simon Baron-Cohen, “I geni della creatività – Come l’autismo guida l’invenzione umana”, Raffaello Cortina Editore, 2021
  • Romina Quaglieri, “Epigenetica e creatività – Conoscere per comprendere”, Armando Editore, 2020
  • Carmela Morabito, “Il motore della mente – Il movimento nella storia delle scienze cognitive”, Editori Laterza, 2020
  • Alva Noë, “Perché non siamo il nostro cervello – Una teoria radicale della coscienza”, Raffaello Cortina Editore, 2012

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Direttore artistico, manager ed insegnante del centro internazionale "Movimento Danza”, fondato a Napoli nel 1979 ed accreditato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali come "Organismo di Promozione Nazionale della Danza”. Coreografa e direttore artistico della pluripremiata "Compagnia Movimento Danza" e del "Performing Arts Group". Direttore artistico ed event manager di rassegne, festival, eventi e bandi di danza contemporanea. Promotrice italiana e direttore artistico della "Giornata Mondiale della Danza". Editore di "Campadidanza Dance Magazine". Presidente di "Sistema MeD - Musica e Danza Campania", associazione aderente all’Unione Regionale Agis Campania.