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Dance&Drama (1) | La danza, uno dei comportamenti della nostra specie

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Sabato 12 giugno 2021 si è tenuto un webinar a numero chiuso con Alessandro Pontremoli, Presidente del corso di laurea in DAMS e docente di Storia della danza presso l’Università degli Studi di Torino, dal titolo “Dance & Drama”.
Introdotto da Gabriella Stazio, Presidente di Movimento Danza, e Mario Gelardi, Direttore Artistico del Nuovo Teatro Sanità di Napoli, l’incontro ha analizzato le peculiarità della drammaturgia della danza, esaminando alcuni casi specifici nell’ambito della danza contemporanea. 
La trascrizione del webinar viene pubblicata nella sua quasi totale interezza su Campadidanza Dance Magazine suddiviso in tre parti. 
Di seguito la prima parte, dedicata alla definizione dei termini "danza", "coreografia" e "drammaturgia".
L’iniziativa nasce da una collaborazione tra Nuovo Teatro Sanità di Napoli e Movimento Danza – Organismo di Promozione Nazionale.

Ringrazio davvero tanto Movimento Danza e il Nuovo Teatro Sanità che hanno voluto questo incontro, incontro che mi rende molto felice, anche perché, anche se non siamo in presenza, ho la possibilità di rivedere degli amici, delle persone che mi stanno molto a cuore, degli artisti di grande valore che provengono un po’ da tutt’Italia. In particolare, a me stanno a cuore gli artisti della Campania, lo sanno bene molti, perché sono poco valorizzati, mentre invece hanno una ricchezza dal punto di vista artistico, progettuale, ma anche dal punto di vista del pensiero, che, per quanto mi riguarda, è particolarmente rilevante.
Allora dico subito di che cosa parlerò. Devo definire anzitutto tre termini, perché altrimenti non riusciamo a capire di cosa stiamo parlando. Era una pratica medioevale quella di mettersi preventivamente d’accordo sui termini della discussione: una lezione universitaria medioevale cominciava sempre definendo i termini della questione. Io sono vecchio, sicuramente non di epoca medievale, ma ho studiato molto anche la danza del passato e quindi mi avvalgo di questa metodologia. Danza, coreografia, drammaturgia vanno definiti.

Cos’è la “danza”?

Partiamo dal termine danza che è il termine più generale. È difficilissimo definire che cosa sia la danza. Oggi in realtà forse lo possiamo fare con una certa tranquillità perché gli studi sulla percezione, sulla conoscenza sono molto avanzati, anche grazie alle neuroscienze.

Una parentesi: le neuroscienze tendono ad avere una impostazione di natura positivista, mentre le scienze cognitive, le scienze della percezione aiutano a spostare il focus su una problematica più olistica dell’esperienza dell’umano, che non sia soltanto un’esperienza relegata alle funzioni del cervello. Alva Noë (filosofo americano, 1964), nel suo libro Perché non siamo il nostro cervello (Alva Noë – Perché non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza – 2010 – Editore Cortina Raffaello ndr) sostiene che non possiamo meccanicisticamente far coincidere noi stessi col nostro cervello. Il cervello è solo una parte di noi, certamente una delle condizioni di possibilità dell’esperienza, ma non è il luogo della coscienza, non è il luogo dell’esperienza. Ma torneremo su questi fattori.

Che cos’è quindi la danza? Allora, la danza è oggi definibile come uno dei comportamenti della nostra specie. Fra i molti comportamenti che la specie umana possiede c’è anche quello di danzare; la danza è inscritta in noi fra i comportamenti organizzati della specie. Che cosa significa questo? Significa che, per certi versi, la danza è qualcosa che è dentro l’esperienza del corpo, quindi nasce insieme a noi, ha una dimensione che possiamo definire parzialmente innata, che però nel corso della vita del soggetto, si sviluppa, matura, si organizza progressivamente in maniera peculiare a seconda dei soggetti e delle persone. La predisposizione alla danza è propria di ogni soggetto della specie.

Ogni essere umano può danzare. Può non volerlo fare, ma è predisposto per danzare, è una sua peculiarità così come noi, in quanto mammiferi, succhiamo il latte materno, e non ce lo insegna nessuno: nessuno ci insegna la suzione, così come nessuno insegna a una madre come si allatta. La danza è uno dei comportamenti possibili della specie. Possibili, dico, perché può darsi che non si realizzi l’esperienza dell’incontro del corpo con l’esperienza della danza.
Può accadere che uno non danzi nella sua esistenza. Ma non è pensabile che non possa danzare, se incontra l’esperienza della danza.

“Dance” by Henri Matisse, 1909-10, via The Hermitage Museum, Saint Petersburg

Nell’ambito delle scienze cognitive si afferma che in realtà non siamo noi a danzare, ma “siamo danzati dalla danza”. Quando entriamo in un’esperienza di coinvolgimento della danza, noi siamo presi dalla danza senza aver bisogno di sapere nulla in relazione alla danza. Pensate ai bambini quando sentono la musica e cominciano a muoversi in modo totalmente spontaneo, libero. In qualche caso, però, questi bambini possono diventare delle “scimmiette ammaestrate” a causa dall’esposizione ripetuta ad un determinato tipo di danza. Ciò è possibile perché ogni comportamento organizzato evolve, quando il soggetto acquisisce nuove competenze nel tempo.

Noi siamo in grado, a partire da questa predisposizione, di imparare perfettamente tutta una serie di processi di movimento che entrano così a far parte di tutti quei comportamenti irriflessi che ci caratterizzano. Inizialmente noi non sappiamo guidare la macchina, ma poi diventa un comportamento irriflesso, non ci pensiamo più.
Gli psicologi della conoscenza spiegano che quanto più diventiamo esperti in una attività di tipo corporeo o cognitivo, tanto meno dobbiamo pensare ad essa. Anzi se ci concentriamo su di essa rischiamo di commettere degli errori. Questo vale per esempio nel rapporto fra il danzatore alle prime armi e il danzatore esperto. Il danzatore che impara una danza deve invece fare molta attenzione ai processi corporei di apprendimento, perché deve tenere sotto controllo molte variabili. Il danzatore esperto non lo fa più, se lo fa rischia, cioè se entra in relazione “cognitiva” con ciò che sta facendo, rischia di interrompere il processo del flusso e di sbagliare. Qualsiasi danzatore sa che è così, se pensa troppo al processo, alla tecnica, a ciò che deve mettere in azione, c’è il rischio che si distragga: è il motivo per cui quando noi guidiamo l’auto non dobbiamo usare il cellulare. Siamo convinti di essere bravissimi a fare le due cose, ma in realtà la situazione diviene rischiosissima, perché creiamo due contesti percettivi distanti fra loro che si influenzano negativamente e rischiano di essere pericolosamente influenzati l’uno dall’altro.

Torniamo quindi alla danza. La danza è un comportamento organizzato della specie. Come diceva Laban (Rudolf Von Laban, danzatore e coreografo ungherese, 1879-1958) ogni essere umano è un danzatore, è un danzatore in potenza.

Cos’è la “coreografia”?

Che cos’è invece la coreografia? Su questo è importante intenderci, perché ci sono molte scuole di pensiero. Inoltre, la coreografia ha a che fare con i processi storici, perché a seconda delle epoche ha significato di volta in volta qualcosa di diverso. Dobbiamo cercare di capire cosa è la coreografia oggi, nella nostra contemporaneità, nella fenomenologia della danza del presente.
Nel nostro presente, coreografia e drammaturgia sono strettamente connesse tra loro, in qualche caso addirittura vengono sovrapposte e confuse. Ma non possono essere confuse, perché implicano processi cognitivi diversi.

La coreografia è un processo, prima ancora di essere un prodotto, ed è un processo di costruzione. Come afferma Mårten Spångberg (1968), studioso e coreografo contemporaneo svedese, essa è un processo formale di costruzione architettonica. La metafora dell’architettura ci permette di capire meglio che cos’è la coreografia: l’architettura, prima di essere un palazzo, è un progetto che si inserisce in processi storici e culturali. Quindi la coreografia non va confusa con un prodotto, perché lo spettacolo nella maggior parte dei casi è solo uno dei possibili “output” della coreografia, è un output del progetto e del processo coreografico.
La coreografia va piuttosto intesa come una scienza progettuale, processuale, che può trovare una sua oggettivazione anche in “espressioni” diverse dal corpo che si muove sulla scena.

William Forsythe, Towards the Diagnostic Gaze, 2013. © William Forsythe

Prendiamo il concetto di “oggetto coreografico” elaborato da William Forsythe (danzatore e coreografo statunitense, 1949). In una mostra allestita dal coreografo qualche anno fa a Francoforte, la prima installazione era un piumino della nonna, appoggiato su una mensola e accompagnato da un cartiglio che recitava appunto: “oggetto coreografico”. Cos’è questo piumino della nonna? E’ un bel piumino, con un corpo in legno, di forme barocche, con le piume di struzzo: quello che si usava per spolverare i mobili. Quell’oggetto posto su una mensola, è per William Forsythe un prodotto della coreografia. È un pensiero, un processo, un progetto di natura coreografica che trova espressione in un oggetto diverso dal corpo che si muove di fronte al pubblico. Il visitatore della mostra è invitato ad afferrare questo piumino e a prenderlo in mano. In quel momento, il progetto coreografico diventa “anche” un corpo che si muove nello spazio, quello del visitatore che, afferrando l’oggetto ed eventualmente agitandolo nello spazio, muove l’oggetto coreografico dalla sua “potenza” all’atto.

La coreografia è già tutta nella dimensione della “potenza coreografica”, che può incarnarsi in quell’oggetto, ma che diventa movimento del corpo solo quando un corpo interviene effettivamente, afferra quel piumino e lo mette in moto col suo corpo.
I coreografi più avanguardistici oggi ragionano per progettualità coreografiche, per processi che durano per periodi lunghissimi e arrivano ad offrire prodotti che passano attraverso “media” diversi dal corpo in movimento (immagini, istallazioni, conferenze pubbliche, azioni politiche, ecc.).

Cos’è la “drammaturgia”?

Arriviamo ora al termine drammaturgia. Che cosa è la drammaturgia della danza (e potremmo dire anche del teatro contemporaneo cosiddetto post-drammatico, come lo ha definito Hans-Thies Lehmann in un suo testo fondamentale, all’interno del quale analizza il teatro degli ultimi anni del Novecento che rinuncia agli elementi costitutivi del testo drammatico e produce nuove forme)?

Parliamo di fenomenologie nuove rispetto alla tradizione, di “testi” (in senso ampio e complesso) dove non si trovano più “personaggi” e dove non si “scrivono” più parole che sono e diventano azioni sulla scena. Come è noto, un testo drammatico tradizionale è “comunque” performativo già nella sua tessitura verbale. Se parliamo invece di un “testo scenico” la situazione è diversa: in esso la parola è incarnata in un corpo ovvero dice, ma non necessariamente fa; oppure fa e non necessariamente dice.

La strada imboccata dal teatro contemporaneo è stata quella di un confronto sempre più approfondito con le forme della performance generando quell’estetica del performativo di cui parla Erika Fischer-Lichte (studiosa tedesca, 1943) in un suo volume relativamente recente, illuminante dal punto di vista della comprensione delle categorie di lettura dei fenomeni drammatici dentro al performativo.

La drammaturgia è una disciplina, anzitutto, che si interroga sul processo di costruzione del senso. Del senso del processo e del senso del prodotto finale. Quindi la drammaturgia interviene sia sulla dimensione processuale della coreografia, sia sulle diverse forme che un progetto coreografico genera. Quando parlo di prodotto mi riferisco allo spettacolo, ma talvolta i prodotti sono diversi e la drammaturgia s’interessa anche di questi prodotti formali che non necessariamente coincidono col movimento di un corpo nello spazio e nel tempo. Da questo punto di vista la danza è stata la disciplina più democratica in questo contesto di trasformazione, al punto da accogliere al suo interno tutte quelle manifestazioni che non necessariamente hanno a che fare con le tecniche storiche di movimento e con i linguaggi che da queste tecniche sono nati.

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