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Enrico Coffetti: “Torneremo alla normalità ma non dovremo dimenticare”

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Enrico Coffetti
Enrico Coffetti

Enrico Coffetti si è formato teatralmente al CRT di Milano. Già mimo danzatore presso il Teatro alla Scala, ha diretto la Scuola Professionale Italiana Danza sino al 1992. Nel 1993 ha organizzato la prima rassegna italiana di video-danza  “Danza&Video” per poi fondare, l’anno successivo, l’associazione Cro.Me – Cronaca e Memoria dello Spettacolo e l’omonimo video archivio dedicato alla danza. Con APPI ha organizzato e curato diverse edizioni della Borsa dello Spettacolo di Piccolo Palcoscenico, partecipando inoltre al progetto comunitario “EuramBourse”. Direttore artistico del Teatro San Domenico di Crema dal 2010 al 2016, consulente per il Crt-Teatro dell’Arte sino al 2016, attualmente è presidente e direttore artistico di Cro.me.

Con i teatri chiusi, gli artisti hanno cercato nuove modalità di contatto con il pubblico come l’uso ad esempio delle tecnologie e delle piattaforme streaming. Lei personalmente sta usando o ha usato le piattaforme streaming?

Sì, certamente. Sia per riconvertire quello che avevamo pensato in presenza nella possibilità di partecipazione da remoto. Uso il termine “partecipazione” e non “fruizione” appositamente perché, anche quando si parla di streaming, bisogna capire esattamente che lo streaming è una modalità che va fatta secondo metodologie e linguaggi che permettono ancora partecipazione del pubblico. Ho creato nuovi contenuti ma anche transcodificato contenuti pensati in presenza in prodotti da fruire tecnologicamente con considerazioni, tempi e ritmi diversi da quelli pensati inizialmente.

Lo streaming cambia il rapporto tra artista e spettatore

L’utilizzo delle tecnologie e delle piattaforme streaming determina nuove condizioni artistiche. Secondo lei l’assenza di pubblico dal vivo cambia la danza?

Sicuramente sì, o meglio la danza deve considerare il fatto se eseguita in presenza o no. Più che cambiare la danza è evidente che è il rapporto tra l’artista e lo spettatore a cambiare il risultato finale. Non modifica la coreografia ma sicuramente la partecipazione, l’energia, la qualità dell’interprete che non sente la vicinanza del pubblico piuttosto la mancanza della parte con cui deve necessariamente dialogare.

Secondo lei la corporeità si perde o assume nuovi significati?

Assume nuovi significati ma allo stesso tempo si può riappropriare della corporeità. Questo se chi esegue la ripresa, ha elaborato e studiato sufficientemente lo strumento per recuperare la corporeità anche attraverso la telecamera.  Andando a complicare ancor più se utilizza le tecnologie VAR, di realtà virtuale o di 360°.

Quindi queste nuove modalità permettono di sperimentare ottenere risultati artistici innovativi?

Si certo. Se l’artista non subisce la tecnologia ma è capace di utilizzarla per rendere più leggibile e più veritiero il suo pensiero poetico, allora sicuramente sì!

La pandemia non ferma la creatività ma cambia il processo creativo. Crede che questa esperienza stia cambiando il suo modo di fare, creare, o organizzare arte?

Penso di sì. Soprattutto mi impone un pensiero che coinvolge tutti. Credo che il futuro, attraverso le esperienze che abbiamo vissuto, ci ponga di fronte a una nuova realtà ibrida, dove dal vivo e dal vero, gli artisti dovranno trovare la loro specificità e la loro complementarietà. E questo comporterà sicuramente un diverso modo di concepire un evento di spettacolo, una produzione, un’esposizione, una promozione.

Quindi, dal punto di vista artistico/creativo crede che la pandemia abbia fatto scoprire qualcosa che si potrà usare anche a pandemia finita?

Senza dubbio. La pandemia ci sta permettendo di esplorare la forza degli strumenti che noi utilizziamo quotidianamente. Li abbiamo nobilitati nelle loro funzioni, varrà la pena continuare in questo. Se è vero che è insostituibile l’esperienza dello spettacolo dal vivo è anche vero che c’è una specificità insostituibile dello spettacolo vissuto o prodotto da remoto.

Le piattaforme streaming e i canali tv hanno modelli economici molto diversi da quello dello spettacolo dal vivo. Che tipo di ritorno economico possono dare le piattaforme streaming secondo lei? Si può pensare ad un nuovo modello di ritorno economico?

 Direi che si può pensare se si può immaginare che in realtà la possibilità dello streaming e da remoto allargano enormemente il bacino di utenza di uno spettacolo dal vivo. Tuttavia su questo bisogna trovare degli equilibri molto, molto complessi tra quella che è la distribuzione dello spettacolo attraverso la sua tournée dal vivo e quella che invece è la sua distribuzione attraverso le piattaforme. E’ un equilibrio non facile da trovare. Così come non sarà facile da comprendere i valori economici dei diritti e quindi del cachet di uno spettacolo distribuito su una piattaforma invece che eseguito dal vivo.

Secondo lei i canali tematici come ad esempio Rai 5, Sky Arte, Sky HD, potrebbero sostenere lo spettacolo dal vivo anche dopo la pandemia?

Credo di sì. Penso sia una buona occasione anche per loro impegnarsi in questa possibilità.

Le grandi piattaforme potrebbero aiutare le produzioni

In che modo potrebbero farlo in maniera efficiente?

Se si facessero protagonisti, e in qualche modo anche finanziatori, della versione digitale di uno spettacolo che può assumere diverse forme, diverse categorie. Potrebbe essere questo un compito, una missione specifica delle piattaforme, specialmente quelle dotate di budget sostanziosi, per aiutare, chi produce, a trovare la propria versione digitale dello spettacolo anche se concepito e pensato per essere eseguito dal vivo.

Secondo lei, quando l’emergenza sarà finita, lo spettacolo dal vivo continuerà ad usare alcuni degli strumenti che è stato costretto a usare nella pandemia?

Sono convinto di sì, e che potrebbe trarne anche solo dei vantaggi. Se non necessariamente nella trasposizione digitale dello spettacolo, quantomeno per degli approfondimenti: altre sfaccettature, altri punti di vista, altre angolazioni dello stesso prodotto, svolte però attraverso una produzione ovviamente digitale, tecnologicamente adatta, appunto, alla diverse modalità di utilizzo nelle piattaforme. Ci sono aspetti e dimensioni che possono essere sicuramente sviluppati attraverso queste modalità. E questo sicuramente vale la pena mantenere. Io credo fortemente in una situazione ibrida per il futuro.

Secondo lei quali sanno i rapporti fra le performance dal vivo e le forme di riproduzione e distribuzione che oggi si stanno sperimentando e progettando?

Non sarà lo stesso prodotto. Necessariamente dovranno essere prodotti diversi a seconda di quelle che sono le finalità e le tipologie di partecipazione che si pensa per quel prodotto. Immagino degli spettacoli prodotti per essere eseguiti dal vivo nella loro modalità storica e tradizionale ma che potranno avere, a loro volta, un’altra visione. Un’altra modalità utile per le piattaforme, per gli strumenti, per la diffusione e la distribuzione in termini digitali, da remoto.

Questa lunga emergenza ha cambiato il rapporto con il pubblico. In che modo secondo lei?

Credo sia ancora troppo presto per dirlo ma vale sicuramente la pena, alla fine, di indagarla. E’ ancora difficile avere dei dati concreti. Possiamo, per adesso, verificare che c’è una forte curiosità o perlomeno un generico desiderio di ritornare a partecipare ad uno spettacolo dal vivo. Ma come e quali conseguenze la pandemia può aver avuto sul pubblico ancora non riesco a immaginarlo. Posso rilevare invece che se prima della pandemia era in crisi il processo di delega spettatore e attore. Adesso ci possano essere più energie per ristabilire o per ritrovare nuove forme di delega di partecipazione tra pubblico e artista. Credo che questo sia molto importante.

Il pubblico virtuale va studiato

Cosa ne pensa delle comunità virtuali, fra danzatori e pubblico, che la pandemia ho creato/rafforzato?

Credo che esse siano qualcosa di importante. La pandemia ha mescolato le carte sul tavolo per quanto riguarda tutti i progetti di audience devolepment e audience engagement a cui siamo stati abituati negli ultimi anni, stravolgendone i dati. Credo che, anche in questo caso, sia ancora presto per dare delle risposte.

Ci spiega meglio?

Per esempio: si hanno molti dati sui numeri di quanti hanno frequentato certe trasmissioni in streaming ma non sappiamo esattamente quanto tempo questi siano stati davanti allo schermo, se hanno visto lo spettacolo per intero o solamente in parte. Non sappiamo come lo hanno seguito, se integralmente o se si sono allontanati dallo schermo e poi sono ritornati, oppure lo hanno rivisto in un secondo momento. Sono tutte modalità che vanno studiate con più attenzione per capire esattamente quali sono stati, e soprattutto quali saranno, i meccanismi di una partecipazione di questo tipo.

Secondo lei quali sono gli effetti di più di un anno di separazione tra il teatro e il pubblico.

Attualmente la cosa più evidente è il desiderio di esserci. Di verificare ancora se stessi di fronte ad un atto performativo o a un’esposizione o a un racconto ad esempio. Successivamente bisognerà capire esattamente che cosa l’artista vorrà presentare al nuovo pubblico che viene o che ritorna. Credo sia doveroso, per una sensibilità creativa, porsi queste domande e capire se i contenuti pre-pandemici sono validi anche dopo.

Secondo lei lo spettacolo dal vivo è indispensabile alla vita sociale?

E’ indispensabile da diversi punti di vista. Quando pensiamo allo spettacolo dal vivo pensiamo subito al teatro ma in realtà ci sono molte altri spazi in cui questo può avvenire. Il luogo deputato del teatro è stato una modalità di espressione dello spettacolo dal vivo, precisamente storicizzata, che non è l’unica e che ha ovviamente pregi e difetti. Proprio l’edificio teatrale è stato accusato di aver separato la platea dalla scena invece di aver mantenuto in unione le due forze, unione indispensabile alla naturale e ineliminabile esigenza espressiva di una società che riconosce, celebra, discute, critica, esprime se stessa all’interno di un avvenimento performativo. Il teatro è indispensabile socialmente, culturalmente, filosoficamente.

Come sottolineare questa essenzialità del teatro?

Anche qui, tuttavia bisognerà, a mio parere, capire che ci vuole un costante rinnovamento proprio in queste dinamiche perché esso possa essere percepito realmente come indispensabile alla società e non, in realtà, come un altro momento di produzione economica come tante altre all’interno della nostra esistenza. Lo spettacolo dal vivo ha molte caratteristiche speciali: si tratta di trasmissioni di saperi, di pensieri, di educazione… Tutti valori che lo spettacolo dal vivo ha nel suo DNA.

Ha timori riguardo la sopravvivenza dello spettacolo dal vivo?

Qualche volta, ho qualche timore, francamente. Credo però che sia un timore legato soprattutto a delle “fatiche” di adeguamento rispetto ai tempi che si vivono. Tempi che molto spesso corrono più veloci delle attività umane. Credo che tutto lo spettacolo dal vivo, e lo sta facendo da molti anni, debba trovare nuove formule di esibizione, organizzazione e produzione, proprio per ristabilire il suo ruolo originario e per ristabilire un rapporto partecipativo con il pubblico.

Il ritorno alla normalità non ci deve far dimenticare ciò che abbiamo vissuto

Una crisi è sempre allo stesso tempo un pericolo e un’opportunità. Quali sono i pericoli e le opportunità di questa crisi secondo lei?

Il pericolo che avverto è che questa crisi passerà inutilmente e cioè che il desiderio di ritornare alla normalità possa annullare tutte le riflessioni, tutte le azioni, tutti i pensieri che abbiamo fatto durante questa crisi. Ho la paura che il ritorno alla normalità ci faccia dimenticare, sorpassare quello che è accaduto, pur di ritornare a una vita più vicina a quello che abbiamo vissuto fino a poco tempo fa. L’opportunità è invece quella di far tesoro di tutto quello che durante la pandemia abbiamo percepito, realizzato e mentalizzato con la possibilità di elaborare nuovi linguaggi, nuove proposte, nuovi contenuti, nuove tecniche e nuovi spazi per avere il piacere di fruire lo spettacolo che a mio avviso dovrà avere un’identità, come già detto, ibrida.

La pandemia ha modificato il suo modo di cercare/organizzare il lavoro?

In questi ultimi anni, lavorando quasi esclusivamente con prodotti digitali non ho avuto grossi problemi. Mi sono mancate maggiormente le nuove produzioni cosa che mi ha portato a focalizzare l’attenzione sulla rivalutazione di un repertorio recente o antico che fosse di aiuto per proporre materiali inediti di aiuto a suscitare riflessioni e che potessero sostituire intelligentemente le nuove produzioni.

Che cosa dovrebbe cambiare per rendere più gestibile la ricerca del lavoro?

A mio modestissimo parere, dovremmo avere una maggiore molteplicità di referenti. Oggi mi sembra che il panorama italiano, ma anche estero, la distribuzione o la possibilità di lavoro si restringa sempre di più in un numero ristretto di referenti. Credo invece che valga la pena di allargare questo numero, in modo che una compagnia o un artista possano avere più soggetti a cui presentare il proprio lavoro. Un più altro numero di direttori artistici con cui interloquire, ad esempio, vorrebbe dire avere persone con più vedute a cui presentare il proprio lavoro e questo aiuterebbe a soddisfare maggiormente le esigenze artistiche del territorio. Insomma avremmo un decentramento di responsabilità, aspetto positivo per la crescita artistica e culturale di un paese.

La distribuzione territoriale delle risorse è una parte decisiva nella vita artistica. Crede che la sua regione sia adeguatamente sostenuta dalle risorse pubbliche, nazionali o locali?

La mia regione in particolare non tanto, anzi, ultimamente ha diminuito le attenzioni contributive rispetto al mondo dello spettacolo e della creazione artistica. Ma questo è forse un caso soggettivo, bisogna poi vedere le politiche delle singole regioni perché questo possa essere un giudizio più allargato. Bisogna dire invece che lo Stato centrale negli ultimi anni ha fatto grandi passi avanti: si è sviluppata una mentalità inclusiva rispetto a tutto il mondo creativo dello spettacolo e della cultura dal vivo in Italia. Esso ha iniziato un cammino di particolare attenzione e di aiuto al mondo della cultura dello spettacolo. Le regioni, chi più e chi meno, cercano di fare la propria parte.

L’esempio della Lombardia

Quello che andrebbe potenziato, a mio avviso, è sia il terzo polo, gli enti pubblici o privati ovvero le organizzazioni, fondazioni bancarie o non bancarie che possono avere un grande peso sulle sorti della struttura della produzione culturale nel territorio. L’esempio della Lombardia è esemplare: la fondazione Cariplo è stata sicuramente uno degli attori più importanti nello sviluppo di tutte le nuove iniziative culturali e sociali del territorio a tutti i livelli.

Il sistema dello spettacolo dal vivo e ancora più il settore della danza sembrano molto poco conosciuti dal pubblico, dai media e soprattutto dai decisori politici. Cosa pensa si potrebbe o dovrebbe fare a riguardo?

Si potrebbe fare molto se il mondo degli artisti e dello spettacolo si organizzasse in maniera collettiva. Credo che molti aspetti dello spettacolo e della danza sia ancora poco conosciuti perché molto spesso si muovono in maniera singola o disordinata o scomposta. E’ anche vero che bisogna inventarsi forme particolari di promozione e di visibilità perché è sotto gli occhi di tutti che la comunicazione mainstream si occupa solo della danza solo in occasioni molto particolari e non quotidianamente. Basti pensare quanto la critica ha un ruolo molto inferiore rispetto a quanto aveva qualche anno fa e di conseguenza la visibilità viene meno.

Strategie di comunicazione sempre più allargate

Anche la comunicazione passa sempre di più dallo strumento cartaceo allo strumento digitale, indice non solo di nuove forme comunicative ma anche di strategie di allargamento verso un pubblico più vasto. Il fattore pandemico ha sicuramente messo in rilevanza, attraverso le difficoltà e le criticità, l’importanza generale dello spettacolo in Italia mutando l’attenzione che i precedenza avevano su di esso i singoli amministratori pubblici. Se la pandemia ci ha messo in luce, varrebbe la pena continuare a rimanere in questa luce affrontando appunto in maniera collettiva una propria visibilità, seguendo strategie sempre più allargate. In questo aiuterebbe molto anche la creazione di un albo professionale.

I teatri non programmano o programmano pochissimi spettacoli di danza. Perché secondo lei?

Nonostante in questi ultimi anni lo Stato abbia aiutato anche i teatri di tradizione a poter inserire nelle proprie rendicontazione annuale spettacoli di danza tuttavia questo non ha sempre corrisposto allo sviluppo di maggiori spettacoli di danza e sto parlando della danza in generale includendo tutti i generi.

Perchè questo?

Il motivo è che si hanno due paure che collimano: una è la paura di non trovare il pubblico adeguato a questo tipo di disciplina cosa che però viene smentita quasi sempre dal punto di vista dei borderò; la seconda invece è il timore di togliere spazio alle altre attività sulle quali incide una produzione molto più intensa e una circolazione di denaro, in qualche modo maggiore. E quindi questi due timori finiscono per determinare ancora oggi una distribuzione meno evidente rispetto ad altri generi. Un discorso va anche fatto in termini interdisciplinari: da tanto tempo parliamo di produzioni interdisciplinari dove ci sono delle immagini filmate, delle parti danzate, musica eseguita dal vivo… In realtà bisognerebbe anche analizzare quale spettacolo può essere definito specificatamente di danza.

Enrico Coffetti (www.cromedanza.it)

Secondo lei c’è una distinzione tra i teatri pubblici teatri privati da questo punto di vista?

Diciamo che i teatri pubblici hanno più facilità di includere al loro interno i programmi di danza. I teatri privati sono ancora molto appoggiati a una programmazione costruita negli anni attraverso gli interscambi, su una lista di clienti e di fornitori già definita nel tempo. Per cui, trasformare la programmazione porta a temere di perdere il proprio pubblico e le proprie “piazze”. Ma questo in futuro dovrebbe cambiare. Non è vero che la danza ha poco pubblico, direi che sono gli spettacoli di genere non immediatamente riconoscibile ad avere più difficoltà.

La formazione del pubblico è un tema delicato

Spesso si dice che bisogna formare il pubblico. Lei cosa ne pensa?

La formazione del pubblico è un tema molto delicato e importante sul quale noi siamo attivi da tanti anni e per questo motivo che il Ministero specificatamente ci affida un contributo annuale. Non basta pensare a una educazione del pubblico, a un’ informazione del pubblico rispetto allo spettacolo che va a vedere. Non condivido neanche le strategie di una formazione del pubblico che vada necessariamente coltivato da piccino attraverso le scuole dell’obbligo perché anche qui i dati che abbiamo dal punto di vista statistico non ci confermano che il pubblico dei ragazzi poi ritorna a teatro una volta abbandonata la scuola, anzi. Ci sono quindi processi nuovi da analizzare.

Un lavoro di partecipazione e sensibilizzazione del pubblico

Quello che noi chiediamo è che il progetto di formazione del pubblico sia un lavoro soprattutto di partecipazione. Che sia un lavoro di sensibilizzazione, come dicevamo inizialmente, atto a far “riscoprire”. Ma “riscoprire” non in termini puramente teorici bensì riscoprire in maniera pratica, emotiva e reale, la partecipazione al momento spettacolare. Rinnovare la delega fra pubblico e artista. Riavvicinare gli artisti al pubblico e il pubblico agli artisti.

Come vorrebbe il suo pubblico?

Sicuramente più sensibile ma soprattutto meno vittima di preconcetti. Meno pieno di nostalgie, aspettative e di previsioni. Assolutamente vorrei un pubblico più libero che si avvicini allo spettacolo con la curiosità e l’ingegno di dire: _Vediamo cosa succede oggi in questo teatro. Se mi piace o non mi piace, se posso ridere o piangere, se posso applaudire o non applaudire.  Vorrei che non andasse a teatro già con delle pre-costruzioni mentali ed emotive che gli precludano una vera partecipazione allo spettacolo che va ad assistere. Un pubblico pronto a farsi sorprendere.

Con quali mezzi potrebbe ottenere questo risultato?

Nei processi di formazione, rendendolo più sensibile. A fargli aprire lo sguardo a 360 gradi.  A renderlo più curioso su tutto, musica, arti figurative, su tutto quanto gli accade attorno che fa parte di un insieme espressivo che oggi, poi, viene molto spesso incrociato in ogni singolo spettacolo. Molto spesso ci sono citazioni implicite ed esplicite, di riferimento a diverse discipline artistiche, che vale la pena conoscere o almeno recepirle come stimoli validi per farsi delle domande o indagarle sui loro sviluppi. La libertà si ottiene con la conoscenza.

Se avesse il potere di risolvere i problemi del mondo della danza cosa farebbe per prima cosa?

Farei in modo che la danza abbia le stesse possibilità, soprattutto in termini finanziari, delle altre discipline dello spettacolo. 

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Giornalista e critica di danza, danzatrice, coreografa, docente di materie pratiche e teoriche della danza, docente di Lettere e Discipline Audiovisive. Laureata in Arti e Scienze dello Spettacolo e specializzata in Saperi e Tecniche dello Spettacolo all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Dal 1990 è direttore artistico e insegnante del Centro Studi Danza Ceccano e curatrice del ”Premio Ceccano Danza". E’ inoltre direttrice e coreografa della CREATIVE Contemporary Dance Company.