Sabato 12 giugno 2021 si è tenuto un webinar a numero chiuso con Alessandro Pontremoli, Presidente del corso di laurea in DAMS e docente di Storia della danza presso l’Università degli Studi di Torino, dal titolo “Dance & Drama”.
Introdotto da Gabriella Stazio, Presidente di Movimento Danza, e Mario Gelardi, Direttore Artistico del Nuovo Teatro Sanità di Napoli, l’incontro ha analizzato le peculiarità della drammaturgia della danza, esaminando alcuni casi specifici nell’ambito della danza contemporanea. 
La trascrizione del webinar viene pubblicata nella sua quasi totale interezza su Campadidanza Dance Magazine suddiviso in tre parti. 
Di seguito la terza parte, dedicata alla dialettica fra piccole e grandi azioni drammaturgiche nella danza.
L’iniziativa nasce da una collaborazione tra Nuovo Teatro Sanità di Napoli e Movimento Danza – Organismo di Promozione Nazionale.

Jérôme Bel (coreografo e regista francese, 1964), Michele Di Stefano (coreografo e performer italiano, 1963) e prima di loro, nel modernismo, Alwin Nikolais (coreografo e musicista americano, 1910-1993) hanno messo in scena un corpo che occultava l’identità umana, cercando altre identità. Non si può, tuttavia, parlare di astrazione neanche per uno spettacolo di Alwin Nikolais: dove c’è un corpo vivente non c’è astrazione, dove c’è un processo coreografico non c’è astrazione, c’è un progetto di senso e quindi c’è anche una drammaturgia.
Arriviamo ora alla dialettica delle piccole e delle grandi azioni. La drammaturgia della danza si interroga quindi sul senso, si chiede come un’azione coreografica, un’azione scenica, un’azione del corpo, produca senso. È bene ripetere che il senso non è “qualcosa” che necessariamente si esprime in un discorso, lo potrò eventualmente tradurre anche in discorso, ma il senso non è anzitutto quello. Il senso risiede nella relazione di corpi che stanno l’uno di fronte all’altro. E per produrre senso non necessariamente vengono utilizzati codici linguistici.

La lingua è un codice. Nella danza si utilizzano dei codici (attenzione, però, a non confondere codici con sistemi linguistici), i cui elementi non hanno in tutti i casi delle corrispondenze biunivoche con delle aree di senso. Facciamo un esempio: la danza classico-accademica, che viene generalmente definita narrativa, è quanto di più “astratto” possa esistere, perché nella sua purezza di linguaggio non “dice” niente, non si può tradurre in un discorso, quello che si può tradurre in un discorso è ciò che i gesti-segni della pantomima esprimono. La pantomima classica è infatti una lingua di segni, una sorta di “LIS” con gesti precisi il cui significato è riconosciuto e condiviso all’interno di una certa comunità, gruppo o società.
Con buona pace della povera Carla Fracci (ballerina italiana, 1936-2021), che ha molto contribuito in passato a divulgare il gusto per la danza accademica, anche nella TV degli anni Sessanta e Settanta (soprattutto), la danza non è una lingua universale perché non è una lingua. La pantomima ritmica è una lingua, perché i suoi “segni” contengono i tratti pertinenti dei gesti quotidiani. Il codice linguistico della pantomima nasce in contesti culturali definiti, entro determinate strutture sociali. Non in tutte le culture gli stessi gesti hanno lo stesso significato.
Si tratta, infatti, di un processo di costruzione di senso “culturale”, che genera codici, ma la danza è un’organizzazione di azioni corporee, che solo in certi contesti e in determinate situazioni ha la capacità di dire qualcosa di verbale. La danza non parla, semmai utilizza la parola come un suono, come un gesto corporeo particolare. Il corpo, nonostante quanto detto, è comunque sempre segnato dal senso, è sempre impregnato di senso.

La danza accademica, dicevo, è la più astratta di tutte. Ma quando il danzatore classico va in scena dice delle cose, comunica delle cose. La danza accademica comunica innanzitutto un potere sul corpo, un disciplinamento sul corpo. Comunica una disparità di genere: andare sulle punte è prerogativa unicamente femminile (anche se alcune compagnie utilizzano in termini grotteschi la figura del danzatore en travesti), ed è una pratica dolorosa. Perché gli uomini non vanno sulle punte? Il retaggio è storico: alla base c’è la costruzione di potere nei confronti del corpo sia maschile che femminile, disciplinamento del corpo in termini politici e di potere che si consolida nel XVII secolo e che produce una definizione di ruoli.
Torniamo al dramaturg della danza. Questi coniuga un processo di grandi azioni con delle micro-azioni. La dialettica che si instaura fra micro-azione e macro-azione genera senso. Questo avviene a tutti i livelli della danza, anche a livello tecnico. Pensate a Maurice Béjart (danzatore e coreografo francese, 1927-2007), cosa fece per generare il senso, prese la danza accademica, le tolse un po’ di orpelli dell’estetica ottocentesca e cominciò a piegare il piede “a martello”. Questa apparve come una trasgressione forte: oggi ci fa ridere, ma quando lui la introdusse, storicamente fu un cambiamento dirompente. E questo è un elemento drammaturgico estremamente forte, perché si basa sul processo di opposizione. Quindi che cosa genera senso dentro la danza? Continuare a generare flussi di opposizione e di trasgressione nei confronti dei codici sociali e dei codici culturali riconosciuti e condivisi.

Allora, in questo video che cosa vediamo dal punto di vista drammaturgico? Questo è un lavoro che ha una drammaturgia assolutamente rigorosissima, è un processo di costruzione drammaturgica estremamente preciso. Come può produrre senso un pezzo come questo? Inevitabilmente, per questioni didattiche attuerò un processo di transcodificazione verbale. Io vi dirò cose, che invece dal punto di vista drammaturgico non sono create attraverso la parola ma sono vissute nella presenza dell’esperienza dello spettatore in un determinato momento, mentre avviene lo spettacolo: il senso è qualcosa che avviene nell’azione. Essere in presenza a vedere uno spettacolo usando tutta la percezione di cui siamo capaci, nella condizione anche più tradizionale dell’essere seduti su una sedia, è un’esperienza che assorbe attraverso la corporeità dei processi di senso, dei flussi di senso che vengono condivisi in termini corporei. Non c’è una mediazione. È una esperienza di condivisione nella percezione. Allora cosa accade quando siamo di fronte a questo prodotto? Ci sono tutta una serie di fenomeni percettivi che producono senso.

Partiamo dall’esperienza musicale. Steve Reich è considerato un minimalista dal punto di vista musicale, cioè un artista che compone musica con cellule minimali ripetitive, che vengono variate in modo graduale, ma quasi impercettibile. L’esperienza uditiva e corporea, in realtà, coglie queste variazioni, percepisce cambiamento del ritmo. Siamo certamente confusi, per come queste variazioni si verificano: a volte non sappiamo più se il brano ha un ritmo binario o un ritmo ternario; siamo dentro a un flusso, e dentro questo flusso gli accenti cambiano, ma cambiano anche indipendentemente dal fatto che realmente nell’esecuzione cambino, perché cambiano dentro l’esperienza percettiva del corpo dello spettatore e dell’ascoltatore. Questo è già un tessuto di senso, che genera in noi delle reazioni di tipo emotivo, genera in noi una sorta di ipnosi di fronte a questa dimensione di ripetitività. La macro-azione drammaturgica di questo lavoro è infatti la ripetitività, il fatto che ci sia un flusso ipnotico dal punto di vista musicale e che Anne Teresa de Keersmaeker (coreografa belga, 1960) metta in azione la stessa ripetitività musicale con la corporeità. Anche la corporeità è ripetitiva e trasformativa nello stesso modo, non necessariamente in coincidenza con i cambiamenti nella musica. La micro-azione drammaturgia è il cambiamento. Il cambiamento, in relazione alla complessità e al flusso ripetitivo dell’azione generale, genera nello spettatore un processo di senso, di acquisizione di significato. Una dimensione emotiva, ma non in tutte le persone allo stesso modo. Chi, per esempio, non è interessato a questo processo ipnotico avrà una gradazione emotiva differente. “Inter-esse” è un’altra parola fondamentale nella drammaturgia. La drammaturgia lavora sul senso, ma deve costantemente interrogarsi sulla comunione d’essere che quell’esperienza può generare.

Che cos’è l’interesse? C’è interesse quando fra me e l’altro si stabilisce una comunione d’essere, una comprensione d’essere. Allora io sto lì, perché sto bene. Sto lì perché quello che vedo, esperisco e percepisco mi fa star bene. Potrebbe anche farmi star male, ma io sto lì perché percepisco che questo star male fa parte di un processo rituale. Fa parte di qualcosa che so che poi mi fa fare un’esperienza di catarsi, di cambiamento, di purificazione e di trasformazione. Oppure sto lì anche se tutto quanto mi infastidisce, ma quello che percepisco invece a livello unicamente intellettuale mi interessa. In questo caso si tratta di un processo di traduzione in discorso. In altri casi, il discorso che vedo generarsi da quella performance mi appare di natura squisitamente politica. In un loop auto-generativo di senso, la performance viene influenzata da quello che io faccio e agisco come spettatore presente all’azione, che si adegua, anche se non sempre consapevolmente, alle mie istanze. Molto dello spettacolo contemporaneo va in questa direzione, dentro, cioè, un “loop autopoietico di feedback”, come direbbe Erika Fischer-Lichte.

Prima dell’ultimo esempio video, un breve cenno sul tema dell’improvvisazione. L’improvvisazione è uno degli strumenti di costruzione della drammaturgia della danza. L’improvvisazione ha infatti a che fare con la messa in scena della nostra quotidianità.
Nella nostra vita, facciamo esperienza di costante incertezza. Fondiamo la nostra quotidianità sulla ripetitività di abitudini, ma la nostra vita è sempre, costantemente, disturbata da fattori imprevedibili, che richiedono di rinegoziare sempre, ogni volta, tutte le coordinate spazio-temporali ed emotivo-esistenziali della nostra vita.
Basta un niente e la nostra abitudine si sgretola, e quindi dobbiamo rinegoziare il nostro comportamento. Oppure, per esempio, accade che siamo talmente oppressi da un disciplinamento di potere, che l’unico modo che abbiamo di uscirne è sfruttare lo stesso linguaggio del potere, ma con tattiche di improvvisazione che ci permettono di sganciarci e di farci sentire meglio rispetto a questa negoziazione costante che abbiamo con la realtà. L’improvvisazione è paradigmatica del processo creativo sia esistenziale che della performance. Siamo molto attratti dall’improvvisazione sulla scena, perché ci pone in una condizione di maggiore interesse: ci riconosciamo in un costante processo di negoziazione col mondo. Un parte del pubblico non tollera l’improvvisazione, perché predilige le forme chiuse. Ma questo non ha a che fare con la nostra percezione, ha a che fare con degli elementi che stanno nelle convenzioni. Ma le convenzioni si trasformano, le convenzioni vanno cambiate, non sono eterne. Sono convenzioni quelle che noi accettiamo passivamente. Nella convenzione e dentro l’abitudine, che non abbiamo la forza di cambiare, si annida il potere.

Torniamo al nostro video di Café Müller: la drammaturgia era di Raimund Hoghe (performer, coreografo e drammaturg tedesco, 1949-2021), uno dei primi dramaturg istituzionali della danza. Per intenderci, era proprio il dramaturg di Pina Bausch (coreografa tedesca, 1940-2009).
Café Müller: la logica delle grandi azioni è quella comune a tutti i pezzi che erano stati commissionati per una serata speciale (altri tre coreografi, oltre Bausch, dovevano presentare un pezzo nel rispetto di una serie di elementi comuni, soprattutto nel medesimo set scenografico). La logica delle grandi azioni, dicevo, è fondamentalmente: anzitutto quella definita dal luogo, una specie di bar abbandonato, con tante sedie e con ovviamente delle azioni fisiche, delle azioni coreografiche che vengono svolte all’interno. La logica delle grandi azioni è quella di uno spazio che per Pina Bausch è uno spazio della memoria.
La logica delle grandi azioni è mettere in scena un luogo della memoria. Lo si capisce immediatamente dopo la prima azione fisica di Pina Bausch, che entra con gli occhi chiusi, le mani con le palme rivolte verso l’esterno e si muove in modo incerto, insicuro cauto, in questo spazio pieno di ostacoli, oscuro. Ad un certo punto tutta una serie di suoi “doppi” compaiono sulla scena. L’esperienza che qualsiasi spettatore fa in quel momento è di percepire quell’azione complessiva – fatta di luci, di buio, di scenografia, di sedie e di tavoli – come un luogo della memoria, un luogo della evocazione. L’utilizzo della musica barocca in Pina Bausch è estremamente forte, la musica è un elemento portante della drammaturgia di Pina Bausch, che ha a che fare con la logica della grande azione, che possiamo chiamare azione “della memoria”. L’azione della memoria si traduce poi in una serie di micro-azioni, che sono di per sé azioni drammatiche. Coniugando la macro-azione con ciascuna delle altre azioni, noi entriamo in relazione con questo luogo di memoria che genera ricordi, emozioni forti.
Come si fanno a generare queste micro-azioni? Vi ho fatto vedere una micro-azione significativa. La micro-azione significativa è un abbraccio. L’abbraccio non è mai neutro in nessuna cultura. Cioè due corpi che si uniscono l’uno all’altro generano nella nostra risposta corporea un’ emozione, una dimensione di senso estremamente facile da cogliere e da comprendere. Così come è facile comprendere l’azione di un terzo che interviene in termini di potere sui corpi di queste altre persone e li riplasma secondo una visione che è la propria. Queste micro-azioni acquisiscono senso e non sono pazzie, non sono gesti folli di fronte allo spettatore; anche se all’inizio qualche spettatore di Pina Bausch probabilmente abituato al Lago dei Cigni poteva ritenere che si trattasse di persone pazze che si muovevano nello spazio.

Nell’esperienza e nell’apprensione coscienziale di quello che avviene noi diamo fondo a tutta la nostra dimensione di creazione del senso dentro la nostra corporeità in relazione sempre con ciò che è diventato già discorso. Quindi vediamo quelle micro-azioni come realtà evocate davanti a noi da una mente che ricorda, da un corpo che ricorda, soffre gioisce piange si dispera in relazione a quello che noi percepiamo come nostra sofferenza, come nostra gioia dentro a quel processo. Cosa fa dunque il dramaturg della danza? Cerca di capire se il senso di quella macro-azione che si coniuga con le micro-azioni produce senso – non veicola – ma produce senso nella relazione. E quando si dice: “così funziona!” è perché il dramaturg si mette nella condizione dello spettatore. Si mette in una condizione di spettatore particolare che è stato sia dentro la produzione dell’emozione sia dentro la produzione dell’azione-emozione, dell’azione-gesto, delle azioni-discorso, e dall’esterno cerca di capire se possono essere comprese. Attenzione: non capita razionalmente, ma compresa, presa in carico dal corpo dello spettatore. Presa in carico dal suo corpo e solo dopo interpretata anche razionalmente. Diventa un discorso chiaro, ma non è in prima istanza discorso o meglio è il substrato materiale su cui io costruisco il mio spettacolo. Perché lo spettacolo è costruito anche su discorsi, su letture, su oggetti, sui materiali, su tutto ciò su cui il mio progetto coreografico in qualche modo si riversa come possibilità di produzione di senso e di attualizzazione di quella progettualità.

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