CESENA – Tutto si trasforma nella camaleontica rilettura de Le Sacre du Printemps di Dewey Dell proposta per la rassegna Carne, il focus di drammaturgia fisica di ERT / Emilia Romagna Teatro.
Oltre la danza, un rituale arcaico
Nello spettacolo ideato lo scorso anno, il rituale tutto pagano, che delle sue origini Stravinskijane mantiene tutta la carica primigenia legata alla sacralità della natura e dei riti di passaggio, prende forma sul palco del Teatro Bonci di Cesena attraverso le coreografie firmate da Teodora e Agata Castellucci, il disegno luci e scena di Vito Matera, i costumi e le maschere realizzati insieme a Guoda Jaruseviciútè e l’interpretazione di Agata Castellucci, Teodora Castellucci, Alberto “Mix” Galluzzi, Francesca Siracusa, NastyDen.
Ma definirlo spettacolo di danza sarebbe limitante. Non è solo danza né pura danza quella in cui vediamo impegnati i performer. I movimenti del corpo, che stentano a incanalarsi in un determinato genere ma piuttosto lavorano sulla radice profonda e primordiale dei gesti e delle posture, quasi a richiamare le pitture rupestri, sfuggono alle codifiche, si mescolano, usano protesi, veli, maschere, giocano con le forme e le illusioni ottiche, con gli incastri dei corpi e degli elementi scenici.
Quello che vediamo prendere forma è piuttosto un rituale arcaico in cui tutto incontra il suo contrario in una danza, in un convivio, in uno scontro, in un miscuglio di membra, in una lotta per la sopravvivenza. Un inno ai mutevoli accadimenti dell’esistenza, alla metamorfosi che unisce vita e morte in un continuum di scambi che ne confondono i confini, ne inabissano le prerogative e ne evidenziano le dipendenze. La celebrazione della gioia dell’esserci, il turbinio degli elementi che si liberano senza soluzione di continuità, trasformandosi e trasferendosi l’uno nell’altro. Il terrore della fine. La fragile bellezza di un nuovo inizio, come un fiore appena sbocciato.
Un bruco come principio e fine di tutto
Con un tuono, una debole e calda luce rischiara pian piano l’interno di un antro. È una tana, forse un cavo nella terra o nel tronco di un albero. Al centro, una palla che trema, turgida. Sussulta. È un’enorme goccia di rugiada. Oppure un uovo che si schiude, si buca, si affloscia e scivola come una pelle sul corpo della creatura che custodiva. Un bruco paffuto si aggira ora per la cavità, muovendo il corpo sugli accenti di Stravinskij con il consueto moto a fisarmonica proprio degli insetti striscianti. È la musica che detta legge e offre chiarissime chiavi di interpretazione agli accadimenti suggerendo ora la calma, ora il pathos, qui l’inizio e là la fine delle cose.
Arrivano due ragni neri che cercano una preda con movenze da breakdancer. Due insetti foglia dalle sfumature marroni si aggiungono leggeri alla loro danza per la sopravvivenza. Il bestiario è solo all’inizio e ora ci pensa la fantasia a completare là dove la varietà della natura ha fermato il suo pennello: una strana creatura con una lunga antenna dorata e due grandi ali velate ruba loro la scena e prende ad agitare le estremità alla Loie Fuller. Nei disegni che si creano per l’aria c’è tutto: corolle di fuori, chiome alberate agitate dal vento, esili fronde, cespugli fitti, bocche giganti che inghiottono, voragini della terra, cieli in tempesta, voli d’uccelli.
Tutto si trasforma nella rilettura de Le Sacre du Printemps di Dewey Dell
Ora una creatura quadrupede, un ragno cyborg dalle zampe robuste come tronchi d’albero, porta scompiglio sulla scena saltellando al suono di trombe e tamburi solenni. Poi, cinque umani vestiti da apicoltori perlustrano la cavità: hanno scovato il nascondiglio di chissà quale segreto. Toccano, trovano tracce, studiano. Ma la forma antropomorfa è per loro solo un passaggio: i corpi si accasciano a terra, smettono di usare le braccia per ciò che sono e strisciano come vermi. Anch’essi parte del ciclo e riciclo del mondo, perdono la loro unicità per aggregarsi come colonie di esseri unicellulari a formare un solo grande ammasso invertebrato dalle zampe rotanti e il tronco sinuoso.
Sul finire, un essere dorato mangia ciò che trova, si fa sempre più alto e agitato. Ha il fuoco dentro, guizza sempre più in alto e sputa figli. Da ultimo rimane un’ombra che vortica veloce. Da lontano torna il bruco dell’inizio, sgranocchiando bonario le pareti della caverna a sancire quella che sembra l’unica verità delle cose: niente si crea e niente si distrugge, tutto si trasforma.