Marco Valerio Amico,  direttore artistico della compagnia gruppo Nanou, risponde alle nostre domande relative al progetto di ricerca Covid 19/Si cambia danza – niente sarà più come prima.

Durante questo lungo periodo di lockdown, ha usato le piattaforme streaming per trasmettere spettacoli della tua compagnia Nanou?

“Sì. Attualmente, insieme alla mia collega Rhuena Bracci, sto lavorando alla creazione di un solo, ma già lo scorso marzo, un progetto nato dalla collaborazione del gruppo Nanou con la band musicale OvO è andato in onda sulla piattaforma DICE.FM nell’ambito del Festival Transmissions. In quella occasione, per la diretta live del concerto/performance, abbiamo ideato una regia appositamente per il video, con un formato ad hoc per lo streaming.

Che cos’è la danza in video?

Ritiene che l’assenza del pubblico dal vivo cambi la danza?

“Da un certo punto di vista, credo che la mancanza del pubblico dal vivo non cambi la danza, perché lo sguardo esterno, almeno per quanto riguarda il gruppo Nanou, non è fondamentale per la creazione. Dall’altro lato, quest’assenza, che fa venir meno una relazione importante, comporta una riflessione: che cosa è la danza in video? In questo momento sto cercando di capire, dalla prospettiva coreografica, che tipo di linguaggio si può generare e che tipo di relazione con lo sguardo esterno ‘virtuale’ si può instaurare. In tal senso, il discorso su cosa rappresentare in video diventa una questione artistica, un dibattito sulla ricerca di un metodo e non soltanto un problema relativo al tipo di ripresa”. 

E in che modo, secondo lei, il ‘linguaggio’ dello spettacolo in video dovrebbe differenziarsi dalla performance dal vivo?

“La tecnologia a nostra disposizione offre moltissime possibilità. Già in passato c’è stata una vasta sperimentazione video. Penso a registi come Spike Jonze, Chris Cunningham, Michel Gondry che negli anni ’90, attraverso la musica elettronica, hanno prodotto video clip che hanno cambiato la fruizione del materiale multimediale. Relativamente alla danza, se ci si limita a riprendere uno spettacolo per trasmetterlo live o in differita, partiamo con il piede sbagliato. Se, invece, pensiamo di creare qualcosa di nuovo, allora ci si apre un orizzonte di possibilità.

“Il problema di oggi, quindi, diventa quello di stabilire il valore artistico di una rappresentazione online. Credo sia compito nostro, in qualità di coreografi e artisti, determinare la differenza tra il linguaggio della danza in scena e quella in video. Io ci sto pensando. Da questo punto di vista, la pandemia mi sta facendo riappropriare di tempo per riflettere e per sperimentare senza l’obbligo di produrre”.

Pensa che a pandemia finita si continueranno a usare le piattaforme streaming?

“Sì, credo proprio di sì. Anche adesso che stiamo producendo uno spettacolo il cui debutto è previsto per luglio, stiamo preparando delle riprese nel caso non si potesse andare in scena. Per ora si considera ancora un piano B, un’alternativa, solo eventuale, per mostrare il lavoro fatto se i teatri fossero ancora chiusi. Ma, come è già avvenuto per la musica, dal mitico concerto di Woodstock in poi, anche per la danza si potrà contemplare la possibilità di assistere a spettacoli pur non essendo presenti dal vivo. In tal senso, ricordo la diretta del famoso concerto Live Aid nel 1985 e del primo di concerto in Italia di Madonna, trasmesso in diretta dalla RAI nel 1987, entrambi diventati documenti ‘storici’ e di divulgazione”.

Quindi, secondo lei, la performance dal vivo potrà coesistere con le forme di riproduzione e distribuzione che oggi si stanno sperimentando?

“Credo, che questo processo sia iniziato già da un po’ di tempo. Prima della pandemia, ho conosciuto un giovane danzatore che mi disse di conoscere il gruppo Nanou perché aveva visto alcuni nostri video. La cosa mi stupì, perché, secondo me, se non ci aveva visto dal vivo era impossibile che ci conoscesse. Oggi, inizio a capire…”.

In futuro lo streaming conviverà con lo spettacolo dal vivo

Tornando al pubblico, pensa che questa lunga emergenza abbia cambiato il rapporto tra spettacolo dal vivo e spettatori?

“Quello che accadrà con le riaperture non lo so. Probabilmente ci sarà un periodo di ‘restaurazione’ in cui si tenterà di tornare a quello che era, ma che già non esiste più, a cui seguirà un’ulteriore periodo di transizione, necessario per andare verso un’altra direzione. Bisognerà capire i contenuti che dovranno essere proposti, perché oramai abbiamo capito che lo spettacolo può essere goduto anche dal divano, ma, da un punto di vista artistico, bisognerà ridiscutere la distanza tra palco e platea e il conseguente rapporto con il pubblico”.

Che opinione ha delle comunità virtuali che la pandemia ha contribuito a far nascere?

“Trovo che siano nate delle comunità virtuali molto interessanti sulla riflessione politica e culturale, in particolare quelle dedicate allo studio teorico dello spettacolo online. Ma ciò che più mi ha colpito in questa pandemia è stato vedere come, per la prima volta, le aggregazioni per i diritti dei lavoratori dello spettacolo abbiano trovato, anche attraverso il sostegno del loro pubblico, un ascolto mai avuto prima”. 

E’ ipotizzabile un nuovo modello di ritorno economico basato sulle piattaforme streaming? 

“Forse sì, ma ipotizzare un simile modello economico anticipa tempi che non sono ancora pronti. La produzione di uno spettacolo dal vivo in streaming è ancora qualcosa di relativamente ignoto, forse si dovrebbe indagare ciò che sta accadendo da anni nell’opera lirica, che già da tempo sperimenta questo modello di distribuzione trovando nello streaming strutture e sostegni. Per la danza è ancora un’incognita, anche perché dovremmo prima capire cosa sia una produzione ‘filmica’. Per ipotizzare un simile sistema produttivo, sono necessarie altre professionalità con competenze che per ora non abbiamo”.

E i canali tematici potrebbero sostenere lo spettacolo dal vivo durante e dopo la pandemia? 

Sì, potrebbero, ma avrebbero bisogno di un azzardo linguistico. Lo spettacolo dal vivo ha un’eterogeneità di prodotti, mentre la TV rappresenta esclusivamente cliché linguistici o linguaggi consolidati che vengono compresi e seguiti da un pubblico più vasto. Per sostenere lo spettacolo durante e dopo la pandemia questi canali dovrebbero aprirsi anche alle avanguardie o a linguaggi meno conosciuti”.

Bisogna assimilare il passato ed aprirsi al futuro

In che modo, questi canali, potrebbero rappresentare anche i prodotti artistici che non siano quelli già conosciuti dal grande pubblico?

“Credo che la TV dovrebbe creare dei format specifici. Il problema della ricerca coreografica è quello di assimilare il passato per aprirsi al futuro. La cultura del 900, per esempio, spesso non è conosciuta o non è stata ancora metabolizzata dal pubblico generalista. Dei format documentaristici sui processi di ricerca coreografica o di movimento, sarebbero di grande aiuto in tal senso. Sarebbe interessante riuscire a portare un format tipo reality all’interno di produzioni di ricerca, per creare un sistema di formazione e di educazione che riguardi linguaggi della danza diversi da quelli già conosciuti”.

Ha timori riguardo a sopravvivenza dello spettacolo dal vivo?

“No, vivrà per sempre. Sono preoccupato, piuttosto, per alcune piccole realtà che sperimentano, ma che non hanno il sostegno necessario per sopravvivere alla crisi. Ciò che temo è che molti non riusciranno a farcela e che ciò porterà a un impoverimento dell’avanguardia e della ricerca”.

Nulla deve tornare ad essere come prima

Quali sono i pericoli e le opportunità di questa crisi?

“Il pericolo è che torni tutto come prima. L’opportunità più grande è quella di rivoluzionare tutto quanto, dal sistema burocratico al sistema culturale. In questo processo, non solo la classe politica, ma anche il curatore, il programmatore e l’artista hanno un ruolo culturale fondamentale nel determinare cosa sia la danza dal vivo e cosa no. Capire ciò è cruciale per creare uno spartiacque e avviare una rivoluzione che porti lo spettacolo dal vivo da un’altra parte, anche nel tipo di relazione spaziale che si deve determinare”.

Che cosa si dovrebbe cambiare per rendere più gestibile la ricerca del lavoro nell’ambito dello spettacolo?

“Andrebbe cambiato tutto il sistema. Sicuramente andrebbe risolto il problema sull’intermittenza e bisognerebbe trovare un modo per garantire risorse stabili alle compagnie. Avere solo quattro centri nazionali di danza è veramente troppo poco, un supporto finanziario, non saltuario, porterebbe alla formazione di nuovi centri di produzione e aiuterebbe ricerca e sperimentazione.

La gestione economico-amministrativa del Gruppo Nanou, quanto tempo, energie e risorse porta via al suo impegno artistico?

“Troppe! Siamo sotto organico, per questioni economiche, per cui anch’io devo occuparmi della gestione burocratica. La burocrazia dello spettacolo dal vivo è contorta: viene contata la produttività, pensando sia il modo per determinare il merito, compromettendo, talvolta la qualità.

Ritiene che la sua regione sia adeguatamente sostenuta dalle risorse pubbliche?

“L’Emilia Romagna ha molte risorse per la cultura, ma siamo tantissimi. Qui è molto facile nascere, vieni subito accolto dalle istituzioni (ricordo che quando iniziai mi diedero immediatamente una sala), ma poi è difficile crescere. Ottenere le risorse necessarie per progredire, significa toglierle a qualcun altro che ne ha altrettanto bisogno”.

Cosa si dovrebbe fare per far conoscere il settore della danza al pubblico?

“È un’operazione complessa, la mia generazione è stata l’ultima a fare spettacolo nei luoghi OFF. Nel 2008 questa situazione tracollò e fummo costretti a spostarci in teatro senza riuscire a portare il pubblico che ci seguiva fuori. Credo che bisognerebbe ripartire da lì: i luoghi devono essere un riferimento”.

La danza è vittima di preconcetti

Perché i teatri programmano pochissimi spettacoli di danza?

“Perché la danza è vittima di preconcetti, si pensa che abbia poco pubblico. Il problema è che se la danza non viene programmata è inevitabile che non abbia pubblico. Questo atteggiamento, oltretutto, alimenta un’ignoranza collettiva del linguaggio coreografico. A ciò si aggiunga che spesso, gli spazi fisici per la prosa, a causa delle loro scarse dimensioni, non sono adatti a molti tipi di danza”. 

Crede sia utile “formare il pubblico”?

“Da un punto di vista artistico, dal 2017 stiamo facendo un’operazione di chiarezza coreografica. Attraverso dei laboratori cerchiamo di rendere evidente la nostra danza, questo serve a noi per migliorare il nostro linguaggio e al pubblico per capire cosa sta guardando. Rendere evidente la danza, non significa renderla didascalica né spiegare cosa sto facendo, ma renderla chiara. Se io rimango meravigliato osservando il cielo, pur non essendo un astrofisico, mi piacerebbe, un giorno, creare uno spettacolo di danza contemporanea, che desti unicamente meraviglia. Dobbiamo fare un’operazione verso la chiarezza, un’operazione divulgativa, di esperienza, di osservazione di un lavoro in fieri, non educare a cosa è bello o brutto”.

Come vorrebbe il suo pubblico?

“Curioso”.

E con quali mezzi si potrebbe ottenere questo risultato?

“Attraverso un bar che sia aperto durante l’intera durata dello spettacolo, che dia la possibilità di  discutere del lavoro mentre lo si guarda, che favorisca la nascita di una comunità. Bisogna coinvolgere il pubblico andando a stimolare la relazione con le altre persone, creando un  territorio conviviale, attraverso laboratori, incontri con l’università, favorendo incontri con altre professionalità e rivolgendosi a ognuno con un linguaggio che possa essere compreso e che non sia lo stesso per tutti”.

Come è stata la sua formazione?

“Autoformativa. Frequentando la Civica Paolo Grassi come attore, ho avuto l’opportunità di lavorare moltissimo sul movimento attoriale, di seguire un corso di teatro danza, di entrare in contatto con coreografi come Michele di Stefano e Monica Francia, che ogni fine settimana tenevano laboratori in tutta Italia. Quindi, mentre studiavo per diventare attore, ho studiato anche danza e coreografia per poi continuare in maniera autonoma, fino a fondare la mia compagnia”.

Quindi trovi che il sistema formativo sia adeguato alle esigenze degli artisti e delle imprese? 

“No. Le scuole professionali di danza in Italia sono troppo poche e spesso legate unicamente alla formazione ‘ballettistica’. Mancano centri con una visione della danza eterogenea e con un concreto sistema di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Oltretutto, il fatto che in Italia ci sia una sola Accademia della Danza è un problema molto grave. Senza andare a discapito della qualità, bisognerebbe provvedere a stabilire criteri per dare riconoscimento e riconoscibilità ad altri centri di formazione”.

Se improvvisamente avesse il potere di risolvere i problemi del mondo della danza che cosa farebbe per prima cosa?

“Vorrei uno spazio molto grande per iniziare un’operazione cultuale per la danza.Un luogo dove si possa andare a discutere, a confrontarsi sui linguaggi che abbiano a che fare con la coreografia, non esclusivamente con il corpo, ma anche con l’architettura, lo spazio, il tempo e l’arte visiva. Un luogo che possa diventare una piazza di incontri e di riflessione”.

Iscriviti alla Newsletter