Lara Guidetti

Lara Guidetti è direttrice artistica, coreografa e interprete della compagnia Sanpapiè. Emiliana, studia acrobatica a livello agonistico e recitazione. Si diploma nel 2006 presso l’Atelier di teatro-danza della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi e nello stesso anno fonda Sanpapiè. Oltre alla formazione e al lavoro di ampio respiro, sia alla Scuola Paolo Grassi (Susanne Linke, Luciana Melis, Emio Greco, Susanna Beltrami) che fuori (Rimas Tuminas, Cesar Brie, Paz Rojo, Carolina Bolouda, Joao Garcia Miguel, Virgilio Sieni e molti altri ancora), firma per la sua compagnia oltre 20 opere e 40 performance presentare in Europa e nel mondo.

Parallelamente al lavoro con Sanpapiè, Lara Guidetti lavora come coreografa ed interprete nel campo del teatro, della danza e della musica con una particolare attenzione all’operistica diventando autrice delle coreografie per l’opera Giovanna d’arco di Giuseppe Verdi, regia di Peter Greenway e Saskia Boddeke e nel 2019 è coreografa ed interprete dell’opera Aida di Giuseppe Verdi per la regia di Cristina Mazzavillani Muti presso il Ravenna Festival e collaboratrice ai movimenti di Carmen per la regia di Luca Micheletti. E’ stata docente alla Scuola Paolo Grassi, al Teatro Stabile di Torino e tiene workshop in varie scuole d’Italia e non solo. Mediante Sanpapiè e l’attività come docente porta avanti uno studio sulla formazione e la contaminazione di metodi stilistici e didattici trasversali al teatro e alla danza contemporanea.

L’abbiamo raggiunta via zoom per l’Inchiesta Covid-19 – Si cambia danza.

Durante il lockdown molti artisti hanno utilizzato nuove modalità di contatto con il pubblico. Lei ha sperimentato nuovi linguaggi artistici?

Come tutti ci siamo approcciati al linguaggio video e alla comunicazione visuale perché era necessario mantenere una presenza, soprattutto nel primo lookdown. Abbiamo utilizzato tutti i video per produrre dei piccoli progetti interni. Ma devo dire che la fase di ricerca riguardo gli innesti tecnologici (non solo video) per me e per la mia compagnia era iniziata un anno prima del lockdown. Il periodo della pandemia ci ha permesso di sperimentare ed è sicuramente stato utile.

L’assenza di pubblico dal vivo cambia la danza?

E certo. La danza è un rito che fa parte di quel contenitore che si chiama spettacolo dal vivo. La dimensione della presenza è fondante e identitaria.

La pandemia e le circostanze legate ad essa hanno cambiato il suo modo di creare e organizzare il lavoro artistico?

Sì. La situazione mi ha portato a fare delle riflessioni sulla modalità di comunicazione e contatto. Ho in qualche modo realizzato che rallentare – anche se non c’è di mezzo un evento della portata del Covid, e quindi per scelta – può rivelarsi molto utile e produttivo. Non paga correre senza prendere mai fiato. Per quanto riguarda la creatività devo dire che anche nei mesi di stop totale avere un progetto artistico diventava vitale e di salvaguardia psicologica ed emotiva.

Lo spettacolo dal vivo è indispensabile per la vita delle persone?

Sì, ma dobbiamo faticare veramente tanto per farlo sopravvivere in buona salute.

Parliamo delle problematiche di gestione economico-amministrativa che riguardano i singoli artisti e le imprese di spettacolo. Nel suo caso, quanto tempo, energie e risorse portano via?

Prendono molto tempo, troppo. Per questo, con il tempo, ho capito che è necessario avvalersi di un buon team, con compiti e obiettivi chiari. Questo è il modo migliore per avere una struttura organizzativa solida, che quindi consente anche di lavorare artisticamente con serenità.

Ritiene che la Regione Lombardia (dove ha sede legale e operativa la sua compagnia ndr) sia adeguatamente sostenuta dalle risorse pubbliche sia nazionali che locali?

La Regione Lombardia è sostenuta e, come tutti gli enti pubblici, credo che combatta per districarsi in un territorio che è molto ampio e vivace e che quindi, a sua volta, deve sostenere. Devo dire che noi – come compagnia – più che dalla Regione Lombardia, siamo sostenuti dal Comune di Milano.

Il sistema dello spettacolo dal vivo e forse ancora di più quello della danza sembra poco conosciuto sia dai media che dai decisori politici. Secondo lei, cosa si potrebbe fare per ampliare il pubblico in termini quantitativi e qualitativi?

Da questo punto di vista credo che i canali streaming, le piattaforme, etc stiano insistendo molto sul tema della danza, del teatro e della cultura: ma potrebbero fare molto di più. La difficoltà è poi convertire quel bacino di utenti delle piattaforme anche in quel pubblico che occupa le poltrone in teatro. L’unico modo è l’educazione teatrale, quindi le scuole di ogni ordine e grado delle città – non solo quelle dei capoluoghi – dovrebbero avere delle collaborazioni con i teatri e proporre nei programmi visioni tematiche. I bambini e i giovani dovrebbero poter sperimentare la visione e recepire dei linguaggi. Poi da adulti – se non tutti diventeranno degli appassionati – sarà comunque una delle attività che considereranno come cittadini.

Che tipo di pubblico vorrebbe per i suoi spettacoli?

Vario. Vorrei che ci fosse la sciura – che non ha mai visto uno spettacolo di danza – le famiglie, i giovani, gli anziani.

Parliamo di formazione. Che tipo di formazione ha avuto?

La mia formazione è stata particolare, ibrida in un certo senso. Non nasco come ballerina ma come acrobata, poi studio teatro come attrice per diversi anni, entro alla Paolo Grassi e mi diplomo in teatro-danza. Per cui, ho messo insieme aspetti da circense e teatrali. Per me la difficoltà, in fase di formazione, è stata che appartenevo a tanti mondi e quindi a nessuno! Ma la Scuola Paolo Grassi alla fine mi ha insegnato la giusta e necessaria apertura per proseguire sulla strada artistica. Ho studiato pedagogia attoriale, improvvisazione con Luciana Melis, ho studiato tanta teoria e tanta storia con Marinella Guatterini e molto altro…

Cosa pensa in generale del sistema di formazione attuale della danza in Italia?

Nel mio caso sono felice e soddisfatta della mia formazione, ma penso che oggi come ieri, in Italia ci sia un problema di multidisciplinarità. Eppure la multidisciplinarità è la chiave d’apertura per il nostro mondo che di contaminazioni si nutre e vive.

Ha fatto cenno alla sua formazione presso la Paolo Grassi. In Italia però, soltanto l’Accademia Nazionale di Danza di Roma è riconosciuta come istituto di Alta Formazione, equiparata a una Università. Secondo lei è giusto?

Stiamo facendo una battaglia (con altri ex allievi della Paolo Grassi), l’abbiamo chiamata: figli di un Paolo Grassi minore. La nostra battaglia nasce dal fatto che siamo convinti sia ingiusto non riconoscere il nostro titolo e non renderlo equipollente alla laurea.

Ricambio generazionale. Secondo lei come siamo messi in Italia rispetto a questo aspetto?

Siamo messi malissimo. C’è innanzitutto una criticità sui tempi. Basti dire che è difficile – se non impossibile – diventare direttori a trent’anni. Del resto ci sono coreografi che vengono considerati giovani anche a 40 anni pur avendo 20 anni di lavoro alle spalle. E artisti che a 25 anni hanno già qualcosa da dire ma non vengono presi in considerazione”.

Se improvvisamente avesse il potere di risolvere i problemi del mondo della danza in Italia cosa farebbe?

Questa domanda implica una enorme responsabilità. Interverrei su un sistema di sostegno ai lavoratori della danza: un sostegno pratico, dunque economico. In questo momento, probabilmente, sono anche molto influenzata dalla situazione che stiamo ancora vivendo, ma in generale interverrei con delle misure in grado di dare valore e dignità a chi fa questo lavoro.

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