David Beronio, cofondatore e direttore artistico, insieme a Clemente Tafuri, della Compagnia Teatro Akropolis di Genova, risponde alle nostre domande sull’inchiesta Covid-19/Si cambia danza.

Durante questo periodo di pandemia, con i teatri chiusi per il lookdown, ha usato le piattaforme streaming?

Sì, le stiamo usando tutti. Attraverso queste piattaforme si sono aperte molte possibilità di comunicazione e, grazie alla facilità logistica che offrono, è possibile collegarsi con persone con cui, diversamente, sarebbe difficile mantenere un contatto. Per quanto riguarda l’uso diffuso di trasmettere spettacoli in streaming, rappresenta una via che a noi della Compagnia Teatro Akropolis non interessa.

Con questa politica, come avete ovviato alla chiusura dei teatri per la scorsa edizione del festival Testimonianze ricerca azioni?

L’anno scorso, quando ci siamo trovati a fare il nostro festival, dopo averlo organizzato in presenza, abbiamo deciso di mantenere le date in cartellone ma, piuttosto che trasmettere gli spettacoli così com’erano stati pensati per andare in scena, abbiamo deciso di invitare gli artisti per un talk in diretta, sul loro lavoro e le loro ispirazioni. Abbiamo anche invitato dei critici e, lì dove possibile, abbiamo cercato di ospitare questi live nel luogo stesso in cui gli spettacoli sarebbero dovuti essere presentati. Insomma, abbiamo riproposto una versione alternativa dello stesso cartellone.

Esclude, quindi, che lo streaming consenta di sperimentare e ottenere risultati artistici innovativi? 

È una potenzialità. A tal proposito mi viene in mente la video danza, che, noi di Teatro Akropolis, come co-organizzatori del festival Fuori Formato, conosciamo bene. La video danza è un esperimento artistico relativamente antico, tanto che già nel 1945, la regista Maya Deren girò il film: A Study in Choreography for Camera (Studio di coreografia per cinepresa). L’idea di danzare per un obiettivo, solo in seconda battuta per il pubblico che vedrà il video, è l’elemento centrale di questa riflessione. Nel momento in cui ci si pone davanti all’obiettivo di una cinepresa, bisogna fare prima di tutto i conti con il supporto che si sta usando. Il problema, a mio avviso, è che troppo spesso viene saltato questo passaggio fondamentale.

La pandemia sta cambiando il suo modo di ‘fare’ arte?

Sì, perché quando, a causa della pandemia, non è stato possibile fare spettacoli dal vivo, noi del  teatro Akropolis, attraverso i talk, abbiamo deciso di mostrare il lato degli artisti che solitamente non si vede in scena: le ispirazioni, i tentativi, i fallimenti. Questa scelta è stata presa per dare continuità a un’iniziativa cominciata sin dalla I edizione del festival Testimonianze ricerca azioni, ossia quella di raccogliere e pubblicare in un volume i testi sulla visione dell’arte scritti da tutti i partecipanti al festival. In questo modo, il pubblico ha sempre avuto a disposizione un vademecum che lo accompagnasse per l’intera durata della kermesse e gli artisti hanno potuto incontrarsi su quelle pagine prima ancora che in teatro. Come compagnia teatrale abbiamo anche inaugurato il progetto ‘La parte maledetta’ realizzando film documentari sui personaggi del mondo della danza e del teatro che vengono raccontati nella loro parte oscura.

Dal punto di vista artistico/creativo, pensa che la pandemia le abbia fatto scoprire qualcosa che si potrà usare anche a pandemia finita?

Credo che ci siano molte suggestioni che rimarranno. Da un punto di vista creativo i tempi della ricerca hanno guadagnato uno spazio che veniva loro negato per le necessita produttive. Essendo  Teatro Akropolis una compagnia di ricerca, non abbiamo mai avuto questa fretta, ma, confrontandomi con altri autori, direttori e coreografi, so per certo che molti hanno questo problema e oggi stanno riappropriandosi dei tempi che mancavano. Non credo, però, che quando si ripartirà potranno ancora concedersi questi ritmi così rilassati.

Crede che le piattaforme streaming possano dar vita a un nuovo modello di ritorno economico? 

Sì, è necessario pensare a un nuovo modello di ritorno economico. Per ora, però, ci troviamo ancora davanti a un conflitto: fruire in maniera libera e gratuita dei contenuti streaming, da una parte, e dall’altra avere la necessità di guadagnare per sostenere questi prodotti. Se si riuscirà a dar vita a un nuovo modello economico, dipenderà dallo sviluppo che avranno queste nuove forme di distribuzione. 

Secondo lei i canali tematici potrebbero sostenere lo spettacolo dal vivo? 

Potrebbero. È una questione di politica culturale. Sarebbe buona norma se le istituzioni o le realtà più forti cominciassero ad aiutare a crescere quelle indipendenti, che, normalmente, restano nell’ombra. Ma, se per una diversità di visioni, questo sostegno manca da parte degli enti lirici a favore delle compagnie di ricerca, è ancora più difficile che siano questi colossi a supportare realtà meno note.

E in che modo i canali tematici potrebbero dedicare spazi a realtà indipendenti?

Realizzando contenitori attraverso cui offrire a un pubblico molto più ampio cose che solitamente sono fruite da un pubblico di nicchia. Ma, per fare ciò, dev’esserci una volontà politica.

Secondo lei, quando l’emergenza sarà finita, lo spettacolo dal vivo continuerà ad usare alcuni degli strumenti che è stato costretto a usare durante questo periodo?

Questa pandemia è come l’onda di una mareggiata che, oltre alla distruzione, porta grandi  cambiamenti. Come tutte le onde, quando passerà, lascerà delle tracce. Alcune nuove abitudini, che ora sono indistinte, quando la pandemia sarà solo un ricordo, diventeranno nuove pratiche.

Quando l’onda pandemica si ritirerà, quali saranno i rapporti fra la performance dal vivo e le forme di riproduzione e distribuzione che oggi si stanno sperimentando?

La performance dal vivo si declina su diversi piani. C’è, per esempio, il teatro di parola che è molto veicolabile, in tal senso, un rapporto tra spettacolo e video sarebbe possibile. Se, invece, per performance dal vivo si intende la danza in senso stretto o il teatro fisico, il dialogo con l’immagine filmata è molto più complicato e, in ogni caso, andrebbe sempre evitata la mera ripresa dell’atto performativo in sé.

Questa lunga emergenza ha cambiato il rapporto con il pubblico. In che modo?

Il pubblico è stato costretto a non essere tale per un tempo lungo, quindi è prevedibile un suo grande ritorno, perché c‘è il desiderio di tornare a vivere l’esperienza unica della sala. Spero, però, che le persone siano più consapevoli rispetto a ciò che vedono, perché spesso si confonde l’intrattenimento con la cultura, mi auguro, quindi, che si ritorni al teatro ma con più spirito critico.

Secondo lei lo spettacolo dal vivo è indispensabile alla vita sociale?

Sì, perché è presente nella storia della civiltà occidentale sin dalle sue origini. Immagino sia indispensabile considerando che la nostra cultura tende a guardare sempre di più alla sua propria identità. Anche in questo periodo c’è stato un ritorno a valori e sicurezze della proprie tradizioni.

Si dice che una crisi è sempre allo stesso tempo un pericolo e un’opportunità. Quali sono i pericoli e le opportunità di questa crisi? 

Il pericolo più grande è che ci sia un forte accentramento delle risorse che porti le piccole realtà a scomparire. L’opportunità è immaginare nuovi spazi di espressività, incontro e scambio di pratiche e di poetiche, ma è necessario che la frammentazione del teatro e della danza sia messa in discussione e che tutti gli artisti e gli organizzatori siano disposti a fare un passo verso i loro colleghi.

Procurarsi un lavoro è un lavoro anche in tempi NON di Covid. Che cosa dovrebbe cambiare per rendere più gestibile la ricerca del lavoro?

Il lavoro artistico viene sempre percepito su diversi piani: quello reddituale si scontra con la legge di mercato e, da questo punto di vista, è necessario un impegno pubblico per il finanziamento dell’arte e della cultura; quello creativo deve essere preservato a prescindere dalla situazione reddituale. Non bisogna trasformare registi o coreografi in professionisti a partita IVA. È fondamentale trovare punto di equilibrio fra la libertà economica e la responsabilità che assume l’artista nella sua produzione creativa.

Quanto tempo, energie e risorse le problematiche della gestione economico-amministrativa del Teatro Akropolis portano via al tuo impegno artistico?

Siamo un gruppo coeso e, nel nostro caso, c’è chi si occupa della parte amministrativa e organizzativa. Così facendo, Clemente Tafuri ed io possiamo dedicarci a programmazione e produzione. Molti artisti, invece, lavorano da soli e non riescono a trovare tempo per tutto.

Che soluzioni ci sono per chi non può avvalersi della collaborazione di un gruppo affiatato come il vostro?

La soluzione potrebbe essere quella di creare strutture a cui tutti gli artisti possano rivolgersi per l’espletamento delle pratiche amministrative e fiscali. Sarebbe auspicabile, comunque, che la burocrazia venga snellita.

Ritiene che la tua regione sia adeguatamente sostenuta dalle risorse pubbliche nazionali e locali?

La situazione della Liguria è chiara: ci sono istituzioni importanti e prestigiose ben finanziate e ci sono realtà indipendenti che faticano a interfacciassi con le istituzioni. 

Pensa che un censimento dei lavoratori e delle imprese aiuterebbe?

Sì perché la percezione dei politici è confusa. Noi abbiamo organizzato un coordinamento delle imprese teatrali liguri che hanno economie da mandare avanti. È stato un momento molto importante di incontro e scambio con la Regione, soprattutto per portare alla luce una realtà economica che esiste.

Cosa pensa si potrebbe fare per coinvolgere maggiormente il pubblico che sembra tanto lontano soprattutto dal mondo della danza?

È un problema delicato. Le persone vanno a teatro, ma il pubblico della danza e sempre meno di quello del teatro parlato. Credo che per invertire questa tendenza sia necessario mettere al centro delle produzioni la qualità.

Crede che sia  questo il motivo per cui i teatri programmano pochissimi spettacoli di danza?

Siamo ancora calati in una rigida settorializzazione degli stili. Gli stessi bandi ministeriali favoriscono distinzioni, che quasi non esistono più.

Pensa che una soluzione possa essere quella di “formare il pubblico”? 

Questione complicata. La formazione del pubblico non è compito di registi, artisti o coreografi, altrimenti il teatro diventa didascalico. È vero, altresì, che bisognerebbe creare un contesto in grado di mettere gli spettatori nelle condizioni ottimali per godere dello spettacolo. 

In che modo si potrebbe creare questo contesto?

Organizzando incontri con gli artisti, critici, studiosi e, come facciamo noi, attraverso pubblicazioni. In questo modo si riuscirebbe ad avvicinare al teatro un pubblico estremamente vario: ragazzi, studenti, adulti, curiosi, appassionati, favorendo la nascita di una comunità. L’importante è fare in modo che l’esperienza teatrale non diventi fine a sé stessa. Una serata da trascorrere fuori e basta.

La formazione dei danzatori è adeguata alle esigenze degli artisti e delle imprese?

Le provenienze dei danzatori e dei coreografi sono le più varie, ma, a prescindere dal percorso individuale, credo che la formazione possa dirsi adeguata quando ispiri libertà. Un artista deve liberarsi dalle tracce della propria educazione, perché quando queste restano incise nel movimento, il problema si ripercuote sul lavoro.

E del fatto che abbiamo una sola Accademia della Danza in Italia cosa ne pensa?

È uno di quei fenomeni che da un lato creano professionalità di grandissimo livello, dall’altro desertifica ciò che c’è intorno. Bisogna garantire spazi e strumenti per realtà indipendenti senza rinunciare ai criteri di qualità che l’Accademia garantisce.

Il ricambio generazionale in Italia è difficile, anche nella danza. Secondo lei perché?

Il ricambio generazionale è difficile e lento perché c’è sempre bisogno di riconoscibilità. La riconoscibilità è un elemento di comfort ed è per questo che diventa faticoso lasciare spazio a nuovi talenti. È una caratteristica della nostra società.

Cosa ne pensa delle politiche di sostegno alle imprese giovanili?

In generale trovo siano iniziative importanti e positive, ma sarebbe importante non settorializzare eccessivamente. Il parametro under 35 è un’imposizione che poco ha a che fare con la qualità.

Se avesse il potere di risolvere i problemi del mondo della danza, che cosa farebbe per prima cosa?

Mi concentrerei sulla politica degli spazi. Gli spazi della danza, sia fisici che di programmazione, rispetto alla pratica molto diffusa, sono molto limitati, quindi, creerei dei grandi spazi.

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