Nell’ambito del progetto di ricerca Covid 19/Si cambia danza – niente sarà più come prima abbiamo interpellato anche Daniele Del Pozzo, produttore e direttore artistico del festival internazionale Gender Bender https://genderbender.it/en/ 

Daniele, in questo lungo periodo contrassegnato dalle restrizioni dovute alla pandemia, sta usando piattaforme streaming? 

Non attualmente. La prossima programmazione di Gender Bender è prevista per settembre 2021 e non prevediamo di utilizzare piattaforme streaming per il festival, ma l’abbiamo fatto da febbraio 2020 ad oggi. Le restrizioni dovute alla pandemia hanno avuto pesanti ripercussioni sulla programmazione dei nostri progetti per il teatro e per le scuole, di conseguenza, siamo stati costretti a reinventare i format di questi lavori.

Quali sono stati i nuovi contenuti che avete creato per la programmazione online?

Fin dall’inizio ci siamo resi conto che riportare in digitale uno spettacolo pensato per essere rappresentato in scena non aveva senso, perché sarebbe venuta meno la relazione col pubblico in presenza. Gli spettatori, infatti, sono coloro che assistono, non solo come testimoni della performance ma anche in modo partecipativo, perché ‘sostengono’ gli artisti in scena. Lo sforzo, quindi, è stato capire come utilizzare il sistema digitale in modo da rispettare il ruolo attivo del pubblico. In tal senso, uno dei contenuti che abbiamo creato per la programmazione online è stato il progetto Corpi Elettrici.

Di cosa si tratta?

Il Festival Gender Bender, in collaborazione con il Conservatorio Giovanni Battista Martini di Bologna e il Collettivo Mine, ha dato vita a un progetto in cui 22 giovani studenti del conservatorio e 5 danzatori del Collettivo si sono incontrati per tre mesi, due volte alla settimana, in una serie di ZOOM meeting, dando vita a 22 componimenti elettronici di due minuti ciascuno, usati come partitura per altrettante coreografie della stessa durata. Le brevi opere, risultato di questa collaborazione, sono state presentate durante il Festival Gender Bender nel settembre 2020. 

Secondo lei, l’utilizzo di nuove tecnologie sta determinando nuove condizioni artistiche?

Per quanto mi riguarda, il cambiamento più grande che ho notato è stato quello relativo al rapporto tra pubblico e artisti. Nell’ambito del progetto formativo Teatro Arcobaleno, progetto educativo sulle differenze di genere e di orientamento sessuale espressamente rivolto all’infanzia, non potendo presentare gli spettacoli ‘in presenza’, i danzatori/coreografi hanno condiviso il loro processo artistico e creativo con il pubblico, generando una forte empatia relativamente a degli spettacoli che non erano stati visti ma ‘conosciuti’ attraverso le parole degli artisti.

Crede che i limiti imposti dallo stato di emergenza abbiano cambiato il suo modo di organizzare arte? 

Quando sono tornato al teatro, in seguito alla ‘pausa’ che ci ha tenuto lontani dalle rappresentazioni dal vivo, ho notato che troppo spesso la danza contemporanea va in scena in tetri d’opera assolutamente ‘scomodi’ e non funzionali agli spettacoli a cui si assiste. Questi luoghi di spettacolo, creati rispettando le gerarchie sociali dell’epoca, non solo non consentono una buona visuale del palco, ma creano distanza. L’obbiettivo che bisognerebbe porsi, a pandemia finita, dovrebbe essere quello di creare luoghi ad hoc per la danza contemporanea e, soprattutto, quello di favorire uno scambio tra artisti e pubblico. Cosa, oltretutto, che avvicinerebbe più persone a questo tipo di arte.

E in che modo pensa di riuscire a diminuire le distanze tra artisti e pubblico?

Spero di riuscire in quest’intento attraverso Performing Gender – Dancing In Your Shoes, un progetto triennale della comunità europea che coinvolge 11 partner di 8 diversi Paesi, guidato proprio da Gender Bender. 

Considerando l’uso diffuso che si sta facendo delle piattaforme streaming, ritiene che queste nuove forme di distribuzione possano  garantire un ritorno economico?

Noi siamo un festival che ha una parte dal vivo e una parte cinematografica. Nel caso del cinema, sicuramente lo streaming può costituire una reale risorsa economica. Durante il loockdown, infatti, abbiamo deciso di creare un coordinamento tra sette festival, dividendo i costi e creando un festival dei festival. Non solo ci sono stati benefici economici, ma anche vantaggi in termini di nuove competenze acquisite.

Secondo lei i canali tematici potrebbero sostenere lo spettacolo dal vivo durante e dopo la pandemia

Dipende da quanta disponibilità c’è ad accogliere anche realtà più indipendenti. Ovviamente mi auspico che questo accada, ma credo sia difficile, perché questi canali devono fare grandi numeri in termini di audience, cosa che può essere garantita solo da grandi nomi.

Quali saranno secondo lei i rapporti fra la performance dal vivo e le forme di riproduzione e distribuzione che oggi si stanno sperimentando e progettando?

Credo che ci sarà un ritorno al passato, ma spero che possa farsi tesoro di quanto imparato durante il lockdown. Personalmente, ho instaurato un dialogo diverso con gli artisti nella progettazione e programmazione dei progetti che seguo. Se prima ho parlato del rapporto tra pubblico e artisti, anche quello tra ‘organizzatori’ e artisti può trasformarsi in una collaborazione più proficua attraverso un ascolto più sensibile delle reciproche istanze.

Secondo lei lo spettacolo dal vivo è indispensabile alla vita sociale?

Assolutamente sì, perché condividere un’esperienza insieme a sconosciuti significa creare un legame, un ricordo, una sensazione… Lo spettacolo dal vivo ha una forte valenza sociale e cambiando i cannoni e le ‘regole’ dello spettacolo cambia anche il modo delle persone di leggere la realtà e di riconoscere la bellezza.

Che cosa dovrebbe cambiare per rendere più gestibile la ricerca del lavoro?

Bisognerebbe riformare l’intero sistema lavoro, prevedere maggiori tutele  e ammortizzatori sociali per la saltuarietà dell’occupazione, per gli infortuni e per le soste prolungate cui sono sottoposti i danzatori. Un performer, a un certo punto della sua carriera deve ritirarsi e cambiare lavoro, in questo senso, non solo i danzatori avrebbero bisogno di un riconoscimento, ma di un sistema che gli consenta questa ‘conversione’, che avvenga nello stesso ambito artistico o in un campo differente.

I teatri programmano pochissimi spettacoli di danza, soprattutto contemporanea, perché? 

Una parte residuale del poco che è destinato al teatro va alla danza, quindi non c’è da stupirsi se si programma teatro e non viceversa.

Spesso si dice che, per avvicinare un maggiore numero di persone alla danza bisognerebbe “formare il pubblico”. Cosa ne pensa?

Non sono d’accordo. Tutti ballano. A differenza di altre forme d’arte, in cui è più difficile cimentarsi, tutti noi abbiamo mosso dei passi a ritmo di musica. Il problema, piuttosto, è che bisognerebbe organizzare la danza in luoghi non convenzionali se si vuole coinvolgere e ‘formare’ un pubblico.

Secondo lei, il sistema di formazione dei danzatori e delle professioni della danza è adeguato alle esigenze degli artisti e delle imprese? 

Se la formazione nel classico o anche nel moderno è possibile in moltissime scuole sparse sul territorio, per quanto riguarda la formazione dei danzatori in una delle tante tecniche contemporanee è più difficile. Sono molti, infatti, i ragazzi che vanno all’estero per conseguire una migliore preparazione e per acquisire esperienze.

Se improvvisamente avesse il potere di risolvere i problemi del mondo della danza, che cosa farebbe per prima cosa?

Andrei a danzare!

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