Enzo Cosimi

ROMA – La Compagnia Enzo Cosimi sarà al RomaEuropa Festival, dal 10 al 13 novembre per il debutto dell’ultimo capitolo della trilogia ispirata all’Orestea di Eschilo: Le lacrime dell’eroe. Di recente, infatti, la Compagnia è stata ospite al Raid Festival, il 9 settembre, e al Festival MilanOltre, il 29 e il 30 settembre, con il secondo capitolo Coefore Rock&Roll.

Un progetto, l’Orestea – Trilogia della vendetta, che ha avuto inizio nel 2019 con Glitter in my tears – Agamennone e che si concluderà a novembre al RomaEuropa.
Abbiamo quindi intervistato il coreografo Enzo Cosimi per avere qualche anticipazione sull’ultimo atteso capitolo.

Oggi l’eroe è rotto

Il 10 novembre al RomaEuropa Festival debutterà Le lacrime dell’eroe, l’ultimo capitolo della trilogia ispirata all’Orestea di Eschilo. Le andrebbe di raccontare qualcosa di questo spettacolo?

La cosa molto interessante è che riusciremo a mettere in scena, grazie a RomaEuropa, tutta la trilogia. Il 12 e il 13 novembre presenteremo infatti tutti gli spettacoli uno di seguito all’altro e questo, anche per me come autore, è emozionante. 


Le lacrime dell’eroe è la terza tappa, un lavoro molto particolare perché ho voluto indagare qualcosa a me poco conosciuto. Innanzitutto sono partito dall’intelligenza artificiale, collaborando con un artista e un esperto ingegnere. Hanno lavorato su questa macchina, elaborato un programma legato alle Eumenidi e non solo. Sono state consultate diverse fonti, fonti filosofiche, cronaca nera ecc. Alla fine questa macchina può rispondere. 

Le Eumenidi di Eschilo è il processo al matricida Oreste, quindi è un lavoro diverso rispetto ai primi due, dove regnano il sangue e la violenza. Le Lacrime dell’eroe intende dunque lasciarsi indietro il mondo arcaico e arrivare invece a un sistema democratico, che è ciò che stiamo vivendo.
Quindi quello che ci interessava è proprio indagare la possibilità data dalla tecnologia di condizionare il destino di Oreste, attraverso una sorta processo digitale.

In Le lacrime dell’eroe vedremo un’intelligenza artificiale, una macchina che mette in scena il tribunale divino di Eschilo. Potremmo quindi dire che oggi la tecnologia ha sostituito la divinità?

Io nei miei lavori non do mai dei diktat precisi. Se a qualcuno viene in mente ciò, va bene. Ma io non voglio dire: “sostituisco la divinità con la tecnologia”, mi sembra troppo impegnativo. Io do un’impalcatura e in questa impalcatura se lo spettatore si trova, va benissimo. Come autore non me la sento di dire una cosa del genere. 

Dove ha origine il desiderio di ispirarsi all’Orestea di Eschilo per questa trilogia?

Non è una novità per me, perché ho lavorato già negli anni 90 sulla figura dell’eroe. Attraverso vari spettacoli: Il pericolo della felicità, Prologo delle tre femmine, sono tutti spettacoli in cui l’eroe veniva concepito in una certa maniera. Erano lavori estremamente coreografici, in senso tout court. 

Oggi ho ripreso la problematica del tragico ma attraverso uno sguardo molto diverso. Per me oggi l’eroe si è sfaldato, è rotto, vive in un paesaggio completamente diverso da quello di vent’anni fa. E quindi è un tema a me congeniale nel senso che l’eroe me lo trascino da sempre. È un ritornare, con uno sguardo diverso da quello che avevo vent’anni fa. 

Per la realizzazione di Coefore Rock&Roll e Le lacrime dell’eroe Enzo Cosimi si è avvalso della collaborazione della drammaturg Maria Paola Zedda. Come si è svolta questa relazione tra la scrittura drammaturgica e quella coreografica?

Innanzitutto, Maria Paola Zedda oltre ad essere una mia collaboratrice da sempre, è una grande grande amica. Ha lavorato con me come mia assistente per 15 anni, è una grande testa. Ha scritto un libro sul mio lavoro, uscito un anno fa. Durante la stesura del libro abbiamo trascorso molto tempo insieme, scavando nella memoria, ricordando spettacoli anche di 30 anni fa. Quindi a un certo punto è sembrato naturale lavorare con me, collaborare insieme sulla natura drammaturgica del lavoro.

Secondo me oggi c’è un po’ un’inflazione di drammaturghi della danza: si è sempre parlato di drammaturgia, anche prima della mia collaborazione con Maria Paola Zedda. Fare solo un passo a tempo con la musica non mi è mai interessato, sono sempre stato un coreografo anomalo.

Oggi la danza contemporanea ha molto questo aspetto, cioè unire le varie discipline artistiche e creare poi un’unicità, cosa che io faccio da tanti anni. Quindi mi è sembrato interessante trovare una mente così colta e creativa come Maria Paola ed entrare in sintonia con me nei due lavori. Magari ce ne saranno anche altri. 

La stanza buia della creazione

Secondo il coreografo la danza contemporanea ha un senso ben definito: è guardare all’ignoto, entrare in una stanza buia e cercare qualcosa di indefinibile. Quando Enzo Cosimi entra nella stanza buia della creazione cerca qualcosa in particolare oppure aspetta che quel qualcosa semplicemente venga a lui? 

Come dicevo anche a Solofra: è un qualcosa di irrazionale. Non cerco qualcosa in particolare, è indefinito e magari vari anni dopo riesco a definire. 

Mi rende molto nervoso sentire questa dire: “Se non è danza classica, allora è contemporanea”, non è così. Il contemporaneo è un linguaggio vero e proprio che guarda appunto all’ignoto, all’irrazionale. Io, nel momento in cui creo, non agisco mai in una zona di conforto, agisco sempre in una zona di difficoltà. 

Nelle lacrime dell’eroe, per esempio, lavorando su questa dimensione tecnologica – non che non abbia mai lavorato sulla tecnologia perché devo dire già negli anni 80 fui, forse il primo in Italia, a lavorare sul video con Fabrizio Plessi con Sciame e tante altre esperienze. Però ecco, questo elemento dell’intelligenza artificiale non lo avevo mai lavorato.
Cerco sempre di mettermi io stesso in discussione come autore. Quindi il contemporaneo è il punto fondamentale per lavorare in questa maniera.

Si potrebbe quindi dire che la danza contemporanea rende definibile l’ignoto, definisce l’indefinibile? 

Sì, però, torniamo a quello che dicevo prima: la danza contemporanea non definisce nell’immediato. Nel senso che io entro in questo luogo oscuro e percepisco delle cose, che però nel momento in cui le percepisco non sono così definite. Credo che poi negli anni quell’immagine si possa definire. 

Perché comunque il contemporaneo guarda all’irrazionale, guarda appunto all’ignoto, quindi non è che nell’istante in cui vedo un qualcosa di irrazionale lo definisco. Io vedo una percezione. Infatti i miei spettacoli – dico sempre – non vanno capiti ma vanno sentiti. Non c’è niente da capire ma c’è da sentire, questo per me è molto importante.

Nella stanza buia della creazione Cosimi trova una luce, e quando si accende il coreografo dà il via alla ricerca coreografica, che all’inizio è un lavoro personale. All’inizio Enzo Cosimi compone prendendo quello che convince la propria mente. Non teme che, partendo da idee molto personali, i suoi spettacoli possano risultare di difficile comprensione per gli spettatori?

Allora, fondamentalmente io devo trovare un piacere mio, individuale. Non ho mai pensato di fare lo spettacolo per il pubblico, quindi lavoro con un altro tipo di percezione. Se poi, naturalmente, il mio progetto incontra il favore del pubblico, bene, ne sono felice. Però non lavoro costruendo lo spettacolo per il pubblico. Cioè per me è fondamentale il mio approccio. 

Anche Fellini, nei suoi capolavori, parlava di se stesso ma poi parlava all’universo. Non è un personale autocelebrativo; l’artista deve esprimere comunque il suo punto di vista personale secondo me. E poi questo punto di vista si allarga anche a una visione universale; se non accade questo allora non funziona.

Il feedback del pubblico

Enzo Cosimi sostiene che nei propri spettacoli non lancia messaggi, non da risposte, ma crea delle impalcature. Cosa intende col termine impalcature? 

Un po’ quello che dicevo prima: io ho bisogno, necessità di uno spettatore attivo, non di uno spettatore passivo. Chiedo una partecipazione allo spettatore che significa che il pubblico si fa un suo spettacolo. 

Io non creo dei diktat oppure non voglio lanciare dei messaggi. Do un’impalcatura, creo un’architettura che evoca delle cose e ogni spettatore può trovarci i suoi film, le sue visioni. 

Per me va bene tutto, non dico mai “quell’immagine vuol dire quello”, non è nel mio stile, non è la mia tipologia di lavoro. Creo delle impalcature in cui poi lo spettatore può trovare il suo spettacolo. 

Enzo Cosimi ha confessato di avere un grande amore per lo spettatore attivo e che è un piacere per lui ricevere un feedback dal pubblico. Dunque, quanto sono importanti i feedback del pubblico?

Sono importantissimi: se sono ancora qui, dopo tanti e tanti anni, a fare creazioni importanti, vuol dire che – nonostante il mio sia un lavoro di forte impatto, perché lavoro anche sulla sessualità, sono immagini molto forti – credo che la maggioranza del pubblico vede con piacere le mie creazioni, altrimenti dopo quarant’anni avrei chiuso. 

Come adopera questi feedback per la composizione di nuove coreografie?

Non mi influenzano i feedback: io credo in un progetto, in una certa dimensione linguistica. Vado per la tangente, vado dritto sul mio, non è che il pubblico mi influenza. 

Credo che anche altri artisti condividono quello che sto dicendo cioè che io devo prima trovare la pace con me stesso rispetto a quello che sto facendo, devo essere felice e soddisfatto di quello che sto facendo. Poi certo, se il lavoro incontra l’interesse del pubblico sono strafelice, se non lo trova la cosa non mi fa piacere ma nello stesso tempo io non vado contro la mia natura.  

Negli ultimi anni Enzo Cosimi si sta dedicando spesso alla composizione di trilogie come Sulle passioni dell’anima e Ode alla bellezza. Come mai ha deciso di dedicarsi alla composizione di trilogie negli ultimi anni?

Mi interessa lavorare su una progettualità più ampia, più espansa. Sono tre trilogie per me molto importanti: Sulle passioni dell’anima ho lavorato appunto su tre elementi, la paura, il dolore, l’eros. 

Molto importante è stato Ode alla bellezza perché è una trilogia speciale, fatta con non professionisti e soprattutto indaga delle comunità marginali. Una trilogia che mi ha arricchito profondamente.

Dopo queste due, la terza trilogia è appunto sull’Orestea. Quindi è un mio bisogno di allargare la progettualità, non su un unico progetto ma su una progettualità allargata, espansa. È una necessità mia.

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