Riceviamo e pubblichiamo un articolo del professor Andrea Micaroni docente dell’Accademia Nazionale di Danza di videoregia e principi della danza nelle Nuove Tecnologie con elementi di cinetografia al computer.Nella foto le E-Traces di Leasi Trubat Gonzalez in un video rappresentativo.

Con l’affermarsi della modern dance e della danza libera molteplici teorie andavano diffondendosi, alcune che continuavano ad avere le proprie radici nella danza accademica, altre rivendicavano fieramente un totale distacco.

La linea di ricerca che maggiormente indagherà e sarà fondamentale per esplorare le relazioni tra corpo, spazio e scena e che, soprattutto, saprà segnare con l’innovazione lo sviluppo dell’estetica della danza e delle performance teatrali, è quella che si servirà delle nuove tecnologie, informatiche e non solo, per sperimentare nuove forme di espressività, che produrrà nuove tecniche e metodologie che punteranno a spostare l’attenzione dal mero corpo biologico e a mutarne l’usuale percezione.

Con Nicholas Schoffer e Alwin Nikolais nasce la prima performance cibernetica

Al Primo Salone Bâtimat a Parigi nel 1954 con Nicholas Schoffer era nata la Cybernetic Art quando,era stata esposta una Torre Cibernetica del Suono alta cinquanta metri. Tra sue innumerevoli e innovative produzioni, che riguardavano architettura, teatro e film, Schoffer collaborò, nel 1973, con Alwin Nikolais a KYLDEX1 (Spettacolo Cibernetico Luminodinamico), prima performance cibernetica alla Hamburg Opera House, a cui parteciparono anche Carolyn Carlson e Emery Hermans. Sul palco i danzatori del balletto della Hamburg Opera danzavano interagendo con sculture cibernetiche mobili, tra proiezioni ed effetti luminosi.

Grazie ad un sistema cibernetico di controllo il C.C.C. (Cybernetic Command Center), le sculture cibernetiche, composte da strutture verticali su cui erano applicati orizzontalmente dischi rotanti, potevano essere “comandate” e far muovere gli elementi mobili in accordo con la musica. Inoltre, ogni sequenza era registrata a tre velocità differenti e il pubblico poteva interagire, scegliendo quella con cui interagire. La sperimentazione di Alwin Nikolais, noto come l’architetto del movimento, andò oltre. In «contraddizione con i principi della danza libera (…) ribalta, nel loro nucleo portante, anche le affermazioni dei teorici della modern dance sostenendo che non è l’emozione a generare il movimento, bensì il contrario. Nikolais ribadisce che è la motion a essere fonte di emotion, nella convinzione – che sarà poi importante acquisizione dell’antropologia teatrale – che sia il fare e il come viene fatto a decidere cosa uno esprima.

Nikolais utilizza oggetti e costumi con l’intento di prolungare il movimento

In questo modo, unicamente in virtù della qualità del movimento il danzatore smette di rappresentare un personaggio (…) e comincia ad agire sulla scena quella decentralizzazione psichica che gli permette, grazie ad una continua metamorfosi, di trasformarsi metaforicamente in qualsiasi essere animato o inanimato»1. Fulcro della composizione coreografica era diventato il movimento, che doveva essere assoluto e puro, specificità che richiamavano fortemente la supermarionetta di Craig. Nikolais utilizzava, inoltre, oggetti e costumi con l’intento di prolungare il movimento del corpo nello spazio e che ne accentuassero l’effetto.

Lo spazio poteva essere così “spezzato”, con la creazione di una resa estetica che rimandava ad un continuo flusso, che disturbava, disorientando lo spettatore e rendendo di difficile intuizione cogliere in anticipo la sequenza che i danzatori erano in procinto di eseguire2. Il corpo che danza era un corpo privo di emozioni, svuotato, i cui movimenti giravano intorno ai punti cardini delle articolazioni: «Nikolais mutua da Ortega y Gasset una disumanizzazione del danzatore, affinché questi attraverso l’analisi minuta della qualità del movimento di ogni essere, possa trasformarsi in esso divenendo altro da sé e portare così, nello spazio ristretto della scena, l’universo intero. Danza trascendentale, dunque, generata attorno ad un nucleo originario, quello della motion, appunto, sorta di forza generatrice, potere pre-espressivo del gesto, unica realtà con il quale il danzatore ha a che fare nell’esercizio della sua arte»3. Fin dagli inizi della sua carriera, era stato attratto dalla possibilità di utilizzare le nuove tecnologie nelle sue produzioni, per sperimentare nuove forme e, soprattutto, nuovi effetti scenici.

L’uso di diapositive multi-color rendeva astratte le sue messinscene

L’utilizzo di proiezioni di diapositive multi-color, di costumi dai tessuti particolari e dai colori fluo assecondava la completa astrazione delle sue messinscene. La performance priva di una trama, in cui i movimenti veloci e frammentati dei danzatori o (illusionisticamente come Alwin riusciva perfettamente a rendere in scena) di parti dei loro corpi, puntava a far scomparire il danzatore in quanto tale e far cogliere allo spettatore il solo movimento, in una sequenza dettata dalla musica, che egli stessa scriveva con il Moog4, e dall’illuminazione, nonché dai movimenti apparentemente estemporanei dei danzatori.

Il coreografo statunitense fu pioniere della scena computerizzata della danza

Il coreografo statunitense considera «L’arte come un’architettura luminosa e l’arte teatrale come un’attività “non ancora definita” che permette l’integrazione cinetica di tutti gli elementi inimmaginabili»5.In realtà, lo stesso Nikolais affermava che la sua tecnica non voleva essere una disumanizzazione, bensì un’eliminazione di tutti i vincoli corporali cosicché il danzatore potesse, finalmente libero, essere davvero sé stesso e identificarsi e ritrovarsi in ciò che meglio lo rappresentava. Nikolais tramite i quattro fondamenti della sua sperimentazione, chiamati motion, shape, colour and sound, originava un mondo visionario, facendosi pioniere della scena futura computerizzata della danza. Tra le sue produzioni, esempi particolari della sua estetica furono Galaxy e Crucible.

Nel primo, Galaxy, creato nel 1965, è presente un forte utilizzo della Wood’s light, o Black Light, che emette una luce poco visibile ad occhio umano, nella gamma dello spettro ultravioletto. L’utilizzo di tale luce, combinata a strutture appositamente realizzate, a cui venivano aggiunti pigmenti chimici per aumentarne la riflessione, dava la possibilità di far muovere le strutture, senza che se ne scoprisse il meccanismo nascosto. Gli stessi danzatori non comparivano sul palco, ma a muoversi sembravano essere solo particolari dei loro corpi o accessori che riflettevano lo spettro ultravioletto, poiché i loro costumi venivano lavati in particolari sostanze chimiche atte allo scopo.

L’uso delle maschere per un effetto straniante

Interessante fu anche l’utilizzo di maschere, in quanto anche gli occhi reagivano alla luce e l’utilizzo delle maschere creava effetti stranianti6. È probabile che l’effetto per gli spettatori fosse davvero quello di trovarsi dinanzi dei cyborg. Nel secondo, Crucible, presentato nel 1985, il palco era diviso in senso orizzontale in due parti. Nella parte bassa era presente uno specchio che copriva completamente le gambe e i piedi dei danzatori, di cui lo spettatore vedeva solo il busto e le braccia e i loro rispettivi riflessi sullo specchio. L’attenzione era solo sul movimento delle braccia e sulla dualità che Nikolais aveva riportato non solo nel riflesso ma anche nel posizionamento dei danzatori rivolti gli uni verso gli altri e colorati tramite il sapiente uso delle luci. Egli creò molteplici produzioni e grazie, alla sua eclettica e temeraria personalità, il suo teatro riuscì ad essere “teatro totale” aprendo così le porte all’utilizzo delle moderne tecnologie, che videro nella sua figura un vero e proprio precursore.

Con Merce Cunningham nasce la Motion Capture

Merce Cunningham mise a punto un sistema analitico, basato sull’acquisizione del movimento umano e sulla sua elaborazione digitale: la Motion Capture. Questa tecnologia permette di ricreare il movimento in modo virtuale, al fine di animare figure diverse da quelle antropomorfe. Lo spettacolo che sembra definire un turning point nel campo dell’utilizzo delle nuove tecnologie nella danza, avveniristico ma al contempo maturamente compiuto, è Biped (1999). Si tratta di un […] autentico capolavoro di poesia tecnologica in 3D, immerso nel mare sonoro di Gavin Bryars e nell’azzurro delle sue luci da acquario immaginario, vede l’interazione in scena di ballerini reali in calzamaglie iridescenti come le scaglie di pesce, e ballerini immateriali, rappresentati con linee e punti colorati.7 I danzatori in vivo dialogano con le proprie ombre elettroniche, danzando insieme, figure reali e figure virtuali, senza mai rinunciare per questo a una danza autonoma, come arte a sé, e senza sudditanze di nessun genere, neppure delle nuove arti tecnologiche.8In collaborazione con gli artisti digitali Paul Kaiser e Shelley Eshkar, Cunningham elaborò settanta frasi di movimento riprese da telecamere a infrarossi e trasposte in immagini digitali, con due danzatori equipaggiati di Csensori posti all’altezza delle giunture del corpo.

Negli anni ’90 Thecla Schiphorst crea un software per l’ideazione coreografica

Altrettanto interessante è l’ideazione coreografica resa possibile grazie a Life Form9, un software sviluppato da Thecla Schiphorst a partire dall’inizio degli anni Novanta. Si tratta di un sistema istruito sui principi fisici del movimento umano, che apre, dunque, la strada all’era dell’assimilazione dell’invenzione coreografica alla sua scrittura e alla sua memorizzazione. Cunningham utilizzò questo strumento anche in ambito didattico, mostrando esercizi basici fatti in classe e un esempio della loro applicazione nella performance.

E’ Merce Cunningham a creare la prima coreografia al computer

È il caso della serie Mondays with Merce, dove si ha l’impressione di assistere sul web a una vera e propria lezione. Ma Merce Cunningham è stato anche il primo a creare una coreografia direttamente al computer. Presenta nel 1991 Trackers, e soltanto in un secondo momento la insegna alla sua compagnia. Queste sperimentazioni di Cunningham rappresentano la matrice nella quale iniziano a svilupparsi gli approcci di molteplici danzatori e coreografi che gli successero. Tra questi una delle sue allieve, Trisha Brown nel 2007 mette in scena I love my robots, in cui i danzatori condividono il palco con alcuni oggetti inanimati che, in questa scatola magica sembrano prender vita.

Di notevole interesse nel proseguimento di tale sperimentazione, fu la figura del coreografo statunitense William Forsythe. Benché sia stato definito un coreografo post classicista per l’utilizzo, pur molto personalizzato, della coreografia accademica, di lui si ricordano, soprattutto, le intuizioni che lo portarono durante tutta la sua carriera a sperimentare il forte impatto dell’utilizzo di tecnologie nella composizione delle coreografie.

Egli affermava che «Choreography and dancing are two distinct and very different practices. In the case that choreography and dance coincide, choreography often serves as a channel for the desire to dance. One could easily assume that the substance of choreographic thought resided exclusively in the body»10. La sua attenzione al corpo e alla sua “costruzione” era per lui, tanto fondamentale, da portarlo a creare una sorta di “grammatica codificata” del movimento.

L’importanza della decostruzione per William Forsythe

Partendo da un movimento classico, egli dava origine ad un processo di decostruzione, secondo una concezione dello spazio che partiva da Laban per allontanarsene, per poi ampliarlo concettualmente. Mentre per Laban il punto iniziale del movimento era il centro del corpo, per la Graham il plesso solare, per Forsythe, il movimento decostruito poteva avere inizio in qualsiasi parte del corpo: la mano, il polso, il ginocchio e così via. La tecnica che usava per la decostruzione è di difficile riproduzione, poiché egli stesso la riportava come una conseguenza estemporanea di una ricerca continua e di un’analisi attenta fatta del movimento a partire dal singolo movimento di una singola parte del corpo. Il flusso era dato dai movimenti, che venivano composti in sequenza, divenendo coreografia, attraverso associazioni mentali, intuizioni sensoriali, simbolismi e leggi geometriche, in un processo continuo di decostruzione e ricostruzione.

Alberto Testa riportando le affermazioni del coreografo a tale proposito, «il vocabolario non è, e non sarà mai, vecchio. È la scrittura che invecchia. Non mi pongo il problema di sapere se sono un coreografo classico, semplicemente per me è più facile parlare il linguaggio classico. Posso utilizzarlo per scrivere delle storie di oggi»11, precisava come Forsythe «riscriva la danza»12. Anche la considerazione dei movimenti e l’esecuzione dei passi base e delle figure sono completamente differenti per Forsythe. Steven Spier, architetto e preside della Faculty of Art, Design and Architecture alla Kingston University London, ha tra le principali aree di ricerca, la coreografia come sistema organizzativo dello spazio. In una delle sue più note pubblicazioni, William Forsythe and the practice of choreography: it starts from any point, ha raccolto diversi saggi sulla figura del coreografo statunitense.


In uno dei saggi, Gerald Siegmund partendo dall’affermazione dello stesso Forsythe «You cannot do arabesque – arabesque exists as an idea. You can approach arabesque, and move through arabesque, and sustain yourself there for a greater or lesser time. You can try to do arabesque, which is a lot of fun, and we spent a great deal of time trying»13, fece un’interessante riflessione. Egli sosteneva che il balletto era come l’eidos di Platone, un’astrazione che, nel momento della sua concretizzazione, perdeva la perfezione. In pratica, l’arabesque esiste solo nel momento della sua esecuzione ed esiste per quello che è, non per l’immagine ideale che se ne ha. I danzatori attraverso la reiterazione, possono trasformarlo, reinterpretandolo ogni volta, cosa che lo rende ogni volta unico e non sindacabile di giudizio. Non esiste la perfezione dell’arabesque ma una perfettibilità del movimento che Forsythe definisce come «no going from point A to point B and climaxing at each points, transforming them into something else before moving on again»14. Nel 1994, in collaborazione con il ZKM / Zentrum für Kunst und Medientechnologie Karlsruhe produsse Improvisation Technologies: A Tool for the Analytical Dance Eye, una sorta di installazione interattiva per pc, composta da CD-ROM, contenenti video-capitoli in cui spiegava i principi della sua teoria del movimento, sebbene ci tenesse a sottolineare che non si trattasse di insegnamento15. Partendo da linee geometriche presenti nel corpo o che si possono formare tra punti come, ad esempio, la distanza del gomito dal polso, egli spiegava una serie di movimenti che potevano originarsi, tra i quali l’estrusione, la connessione, il ripiegamento.

I Choreographic objects di Forsythe

La tendenza alla destrutturazione che caratterizza la sua teoria della “grammatica” tersicorea e la sua tecnica coreografica, è possibile ritrovarla anche nella scenografia e nell’illuminotecnica di scena e anche nelle colonne sonore delle sue produzioni. Alla musica, per cui si avvalse, per gran parte della sua produzione, della collaborazione di Thom Willems, compositore al Frankfurt Ballet, aggiunse effetti sonori caratteristici. Voci recitanti, rumori fuori campo, alternanza di musica classica e moderna, sottolineavano la frammentazione e l’interattività dei movimenti dei danzatori. Anche le scenografie e i costumi avevano la stessa finalità, quella di accentuare le immagini spezzettate, strappi, creando un notevole impatto visivo. Forsythe lavorò, inoltre, a quelli che definiva Choreographic objects, istallazioni che venivano, talvolta, riprodotte in maniera simile sul palcoscenico e che permettevano l’interazione con gli stessi danzatori ma che, fondamentalmente, rappresentavano un tentativo di risposta alla domanda che si pose ad un certo punto della sua sperimentazione: «Is it possible for choreography to generate autonomous expressions of its principles, a choreographic object, without the body?» 16 . Riflettendo sul pensiero di due noti non-vedenti, l’eroe della resistenza francese Jacques Lusseyran, che parlava di un senso innato della visione, raffigurato come una tela infinita che esisteva ʻnowhere and everywhere at the same timeʼ e del matematico Bernand Morin, che parlava del processo di rovesciamento di una sfera in maniera similare; entrambi si avvalevano di una visione interna al proprio corpo, sentita con i propri sensi, che andava oltre il senso della vista, che veniva ricreata nella mente per poi mettere in atto una traslazione nel mondo reale, al di fuori del proprio corpo.

Tra i Choreographic objects ci furono You made me a monster nel 2005, The defenders part 2, nel 2008, un’interessantissima istallazione composta da una serie di specchi mobili. Il più importante fu però il web project Synchronous Objects for One Flat Thing, reproduced, presentato nel 2009, per produrre il quale, Forsythe collaborò con Norah Zuniga Shaw, direttore del OSU’s Dance and Technology program, Maria Palazzi, direttrice dell’ACCAD ed un folto gruppo di esperti di grafica e informatica. La finalità era quella di ricercare in che modo fosse possibile visualizzare la danza e il movimento coreografico, attraverso strumenti grafici in 2D e 3D, l’utilizzo di software, programmi generativi e, finanche, algoritmi matematici.

Con Evgeny Kozlov arriva la contaminazione tra teatro, danza, musica e arti visive

La contaminazione tra le diverse forme d’arte come il teatro, la danza, la musica e arti visive, vide emergere la compagnia russa Do Theatre, fondata nel 1987, diretta dal poliedrico artista Evgeny Kozlov, considerata, oggi, una delle realtà più affermate nel panorama dello studio della fisicità estrema traslato in un linguaggio noto come Modernismo Russo. Come coreografo tende ad allontanarsi dall’accademismo e come regista è più lontano dal testo rispetto alla resa visiva di uno spettacolo, pur avendo ricevuto una formazione tradizionale e conservatrice legata da un lato alle teorie della danza della Vaganova e dall’altro a quelle teatrali di Stanislavskii. Si definiva, infatti, come un artista d’avanguardia che si misura con le forme più estreme e radicali di sperimentazione. All’inizio della sua sperimentazione i suoi lavori si basavano sul più completo “rigetto” della tradizione: i ballerini e gli attori solitamente non erano professionisti, i luoghi scelti, spesso, erano luoghi non convenzionali (un precursore dell’uso di quelli che ora chiamiamo site specific).

Per la composizione del soggetto e dell’intera produzione di una messinscena, era per lui fondamentale una stretta collaborazione con psicoterapisti, artisti visivi, musicisti, designer. Alla ricerca di un Teatro Totale, la sperimentazione e il working in progress erano costanti per ogni produzione e il risultato di Do Theatre è un complesso insieme di accostamenti surreali, di movimenti liberi dalle regole della tecnica, di simbolismi e architetture di scena differenti di produzione in produzione per la loro peculiarità e il loro effetto sullo spettatore. Una delle produzioni di maggiore effetto è stata Anatomy of Dance, del 2009, in cui la danza si fonde con la musica e l’architettura di scena in modo davvero totale, catturando lo spettatore attraverso un’avvolgente multi-sensorialità, in una surreale danza macabra del ciclo della vita. La musica, vagamente ipnotica, era eseguita live, il musicista, leggermente rialzato rispetto all’azione che si svolge, era comunque presente sul palco, dove interagiva direttamente con i danzatori. I danzatori, a loro volta, interagivano con l’architettura e gli oggetti di scena, tra cui vi erano tre grandi cornici in legno, mobili, dotate di oscuranti, con cui le danzatrici si fondevano e si relazionavano nascondendosi e che assumevano, di volta in volta, funzioni differenti, creando spazi e allusioni di luoghi, spesso sottolineati da proiezioni di scena statiche e nature morte. Una struttura in ferro, da cui partono miriadi di fili, originava una sorta di ragnatela che imprigionava i corpi dei danzatori. “I quadri” che si creavano, così, sulla scena irrompevano con violenza, lasciando gli spettatori con un’inquietante sensazione di smarrimento e di incompletezza.

I nuovi linguaggi nati dall’Equipe di Studio Azzurro

La linea di ricerca della contaminazione tra corpo e tecnologia, in Italia, ebbe tra i precursori l’equipe di Studio Azzurro, nato nel 1982 dall’incontro tra Fabio Cirifino, Paolo Rosa, Leonardo Sangiorgi a cui si unì, in seguito, Stefano Roveda. Sebbene non si occupassero di danza ma di performance teatrali e istallazioni, andavano alla ricerca di nuovi linguaggi espressivi, sperimentando le cosiddette video-ambientazioni: «segnati da un rigoroso approccio drammaturgico al materiale fotografico, il collettivo cominciò a lavorare, a metà degli anni Ottanta, su ambientazioni video per il teatro e per l’opera chiamate “video ambients” (video ambiente), che costituivano connessioni tra il linguaggio fisico del corpo e la natura immateriale del video. Allo scopo di “diffondere oltre le limitazioni temporali e spaziali” della performance teatrale, mentre “ancora costituiva una specifica forma di arte drammatica”, le video ambientazioni di Studio Azzurro erano costituite da ambienti scultorei multimonitor in larga scala così come immagini proiettate con cui si sviluppava una tecnologia matrice video al fine di creare immagini che sarebbero state in sequenza lungo i monitor»17.

Dalle istallazioni museali fino alla performance teatrali, fecero sentire fortemente la presenza dell’elemento virtuale: «negli anni Novanta sperimentano le nuove tecnologie digitali interattive realizzando gli “ambienti sensibili”: installazioni ambientali interattive dove l’azione dello spettatore – toccare, urlare, calpestare, battere le mani – produce un evento virtuale»18. Nel 1997 al teatro Almeida di Londra andò in scena The Cenci, opera videomusicale, in cui, grazie all’utilizzo di sei videoproiettori, sei laserdisk, un sistema di controllo live, un sistema di sensori, un computer, Studio Azzurro sperimentò un set in cui le proiezioni erano diventate parte integrante della drammaturgia in scena. «Qui, come dice Paolo Rosa, in queste installazioni, il regista diventa un “regista di relazioni”, tra opera e spettatore (e tra gli spettatori) e la modalità in cui si può manifestare l’interazione appare inedita e sorprendente per l’autore stesso dell’opera»19. Tra gli altri spettacoli e ambienti sensibili, meritano una citazione per la loro peculiarità, Il fuoco, l’acqua e l’ombra e Galileo. Il fuoco, l’acqua e l’ombra si ispirava all’opera del regista russo Andreij Tarkovskij e venne resa da una scena che aveva il suo fulcro in una pedana mobile e inclinata e dalla presenza di otto videoproiettori.

L’uso delle videoproiezioni riuscì ad accentuare l’intento drammaturgico del racconto del viaggio dell’uomo alla ricerca di una natura perduta, sottolineando i movimenti incerti e peregrini dei danzatori sulla scena. Galileo coprodotto con l’Open Haus di Norimberga andato in scena nel 2006, poi riproposto nel 2008, al Teatro degli Arcimboldi a Milano, metteva in scena la figura di Galileo che “ricostruiva” l’Inferno di Dante. Attraverso l’utilizzo di piattaforme interattive, il pubblico veniva chiamato ad interagire direttamente con i performers.

Orazio Carpenzano fu il primo a sperimentare relazioni tra corpo umano e architettura

Tale linea di ricerca sulla rappresentazione scenica fu seguita e ampliata nella sperimentazione sulla virtualità, da Orazio Carpenzano, docente di Progettazione Architettonica e Urbana presso l’Università la Sapienza di Roma, autore di numerose architetture per il Teatro. Egli, dall’incontro con un altro architetto Lucia Latour, già direttrice e coreografa della compagnia Altroéquipe, a partire, dal 2000 si impegnò in una serie di progetti di architetture di scena multimediali. Carpenzano, partendo dalla presa di coscienza di una frammentazione dell’Io e della società liquida in cui si vive e ci si muove, iniziò a sperimentare le relazioni tra corpo umano e architettura, in un contesto di contaminazione di diversi codici artistici, tra cui appunto il virtuale.

L’immagine di un Io post-umano occupa un ruolo di primo piano, nella società frammentata, e diviene il fulcro per una sperimentazione che miri a ridefinirne i confini fisici e al tempo stesso esistenziali. Il corpo viene trasmutato in una realtà altra, in uno spazio che, egli stesso definisce “stereoplastico”, creato attraverso l’elaborazione computerizzata. In una delle sue pubblicazioni, Idea immagine architettura, Carpenzano, riferendosi alla composizione dell’architettura in generale, aveva analizzato come dai due strumenti utilizzati come punto di partenza di tale composizione, solitamente considerati «il procedimento logico dell’idea e quello empirico dell’immagine»20, si fosse giunti a dover “affrontare” una nuova forma di Architettura.

Orazio Carpenzano attua nel teatro dal vivo, nella coreografia, parte dal tentativo di dare nuove chiavi interpretative alla percezione spazio-corporea dell’uomo postmoderno, che si trova a contatto con una realtà sublimata dalla tecnologia, in cui rischia di smarrire sé stesso e la sua capacità di orientamento, anche in rapporto all’architettura. Il corpo vivo dell’architettura di scena interagisce con il corpo umano e attraverso questa interazione si crea uno spazio altro, simile per alcuni aspetti all’universo di Novak, uno spazio ibrido, teso tra reale e virtuale; esiste, cioè, uno spazio reale, di cui ogni suo punto può ampliarsi verso uno spazio virtuale. Con l’utilizzo della motion capture in real time, il danzatore, immerso nello spazio virtuale trasfigurato, viene immerso nel NURBS (Non Uniform Rational Basis-Splines, un sistema di curve geometriche usato per creare nuovi oggetti e forme) e diventa un Nurboide. Un post-uomo, o se vogliamo, la realizzazione odierna della supermarionetta di Craig, un ibrido di reale e tecnologico, per il quale danzare diventa «trasformazione dello spazio attraverso azioni aperte, interattive, diviene flusso spaziale emergente dalla combinazione di sezioni analitiche e sintetiche che catturano gli altri corpi dell’organismo vivente»21. A partire dalla prima sperimentazione Pycta, passando poi per Sylvatica, PSYCHO, fino LALLUNAHALALONE, le coreografie, il nurboide e la motion capture si intrecciano sempre più per creare uno spazio in cui anche la forza di gravità, “si trasforma in una reversibilità digitale della materia physica”.

Con l’atelier Adrien M/Claire B nascono le prime performance multimediali

In Francia l’atelier Adrien M / Claire B, nato dalla collaborazione tra i designer digitali Adrien Mondot e Claire Bardainne, con sede a Lione, si inserì, con spettacoli propri e in collaborazione con coreografi ed esperti di altre discipline, nell’ambito della creazione di performance multimediali. Il primo nucleo fu fondato nel 2004 dal solo Adrien Mondot, multiforme artista ed informatico, che aveva lavorato per tre anni al Grenoble Institut National de Recherche en Informatique et Automatique alla creazione di nuovi strumenti per la graphic design e, in collaborazione con altri istituti, allo sviluppo di programmi per il controllo dei problemi connessi all’anamorfismo nelle immagini proiettate22. Fin dai primi approcci alle performance, egli sperimentò, grazie a programmi specifici per le sue produzioni, realizzazioni caratterizzate dalla ricerca di contaminazione, «egli va oltre le leggi di gravità e del tempo, mescola le tracce, sfida l’arte circense e l’informatica in un’illusione magica, coreografica e poetica»23. Il programma informatico che segnò il suo percorso artistico, di sua creazione, fu eMotion, uno strumento, che crea oggetti in movimento (linee, punti, lettere, particelle ecc.), basandosi sulle forze fisiche, in grado di rappresentare in tempo reale le immagini, catturate e lavorate, sul palco. Numerose furono le produzioni, principalmente istallazioni e performance, come reTime del 2006, in cui ad un giocoliere immerso nel buio facevano da contrappunto proiezioni di figure umane che sembravano muoversi nello spazio con ritmi ora rapidi ora lenti, in ogni direzione, che avevano lo scopo di ottenere una percezione di sospensione del tempo stesso, la cui dimensione, allo stesso tempo, andava via via aumentando per creare un senso di ampliamento dello spazio. In Cinématique a cui collaborò anche Claire Bardainne, graphic designer e scenografa, del 2010, lo spettatore era parte di un viaggio che si snodava attraverso la proiezione di paesaggi virtuali, di strade rese come fitte maglie, che ondeggiavano, si aprivano e sembravano inghiottire i performer. Punti e lettere, proiettati su teli trasparenti orizzontali, si muovevano interagendo con i performer, creando un suggestivo mondo altro, in cui anche lo spettatore sembrava smarrirsi, incapace di trovare più i razionali punti di riferimento a cui era abituato. Dal 2011 Mondot e Bardainne divennero partner e nacque ufficialmente Adrien M / Claire B, che si basava su alcuni fondamentali principi artistici: «Una sensuale arte digitale sottende le arti dello spettacolo. Al fine di preservare il potere della presenza dell’attore sul palco, mentre viene inserito nel medium digitale, tutte le immagini sono generate, calcolate e mandate in onda in diretta. La scrittura digitale e la lettura dei teli digitali. La percezione immediata sensuale, sebbene di appoggio ad una storia precisa, è primaria nel campo dell’approccio musicale e dei software. Le tecniche dell’interattività superano la sfida tecnica. L’uso dei dispositivi di acquisizione dal mondo dei video games (per il loro calcolo della velocità e della potenza reattiva) combinata con il teatro di figura virtuale (per la sua fantasia e la vitalità dell’improvvisazione umana) rendono possibile un’esperienza fisica per l’audience. Riferimento all’esperienza del movimento inconscio.

La modellazione digitale è ispirata dall’osservazione della natura. Un’intima, inconscia esperienza del movimento suggerisce uno spazio immaginario e trasforma i segni grafici astratti in mondi reminiscenti. Le coincidenze dell’organizzazione. Il gesto entra nell’immagine in una relazione di ragionevolezza e consistenza. La costruzione di forti connessioni tra gli oggetti digitali e veri oggetti rende possibile trasformare il virtuale in estensione del reale»24. Produssero tra le altre messinscena, XYZT, Les paysages abstraits, un’esibizione multisensoriale, in cui forme reali si mescolavano a proiezioni fluttuanti che sembravano avvolgerle in un gioco di illusioni metaforiche in movimento, in cui i movimenti dei fruitori venivano catturati in contemporanea e rielaborati in maniera oniricamente distorta. Hakanaї (in giapponese fragile, transitorio, evanescente) fu un assolo danzato, che faceva riferimento all’aspetto incorporeo dell’essere umano, alla sua fragilità e alla sua incertezza, in cui una danzatrice si muoveva e creava uno spazio ai limiti tra reale e irreale, tra proiezioni illusorie e movimenti simbolici. In Hakanaї le immagini venivano animate live, in rapporto ai movimenti della danzatrice e al ritmo del suono, eseguito anch’esso live, ottenendo proprio quella sensazione surreale di sogno cercata.

Per Antonino Di Raimo c’è una diversa finalità della relazione tra danza e architettura

Pur basandosi anch’esso sull’utilizzo di programmi e software sofisticati lo studio che l’architetto Antonino Di Raimo ha presentato come tesi di laurea, affrontava un aspetto diverso della relazione tra danza e architettura e, soprattutto, aveva una finalità completamente diversa. Nel suo progetto Ideazione e progettazione di Flux-Greece, Laboratorio multidisciplinare di danza a Spetses, presentato nel 2005, più che farsi portatore estremo delle istanza avanguardistiche della transarchitettura e illustratore di un cyberspazio a venire, Di Raimo è partito, come molti dei già citati predecessori, dallo studio del movimento del corpo umano nella danza, analizzandolo lungo il corso della storia, fino a giungere ad un’analisi completa, attraverso l’utilizzo di programmi generativi, del luogo, dalla cui natura scaturivano diagrammi su cui si basava la composizione. Come lo stesso Di Raimo ha sottolineato, il diagramma richiamava il pensiero di Peter Eisenmann, che «permette di precisare come si possa pensare ad una dimensione in qualche modo “figurale” del testo di programma e come questa dimensione si situi esattamente al confine tra spazio e tempo.

Per Eisenmann: «il diagramma è una forma del testo, un tessuto di tracce e un indice del tempo. Il diagramma sta all’architettura come il testo alla narrativa. Il diagramma è formato ma non può essere formale. Seguendo questa impostazione – ovvero considerando lo schema-diagramma come quel dispositivo che, permettendo di oscillare dal tempo allo spazio e viceversa, pone le basi per la soluzione del problema posto – possiamo dire che la presenza della figura-soluzione nella formulazione dei problemi distributivi che caratterizza il programma può essere ascritta alla possibilità di ricavare dal testo di programma il diagramma del movimento distributivo»25. Attraverso un’indagine storica si sottolineava la corrispondenza tra i gesti fondamentali della danza e le architetture dei vari periodi, creando una sorta di corrispondenza biunivoca. Seguiva, quindi, un’attenta analisi della morfologia del luogo di costruzione del laboratorio, l’isola di Spetses, che veniva elaborata per ottenere le linee direttrici del progetto.

A questa si aggiungeva, come pattern da seguire nella composizione, un diagramma a treccia (che richiamava le trecce di affreschi micenei e che rappresentava un legame con il genius loci), utilizzato per la localizzazione delle funzioni del laboratorio. Veniva, poi, creato il flux dancer e, tramite il programma Keyfreming, si procedeva all’animazione dei passi di danza. Ad ogni ambiente, di cui è composto il complesso progetto del laboratorio multifunzionale, corrispondeva, simbolicamente e compositivamente, un passo di danza, dalla cui rielaborazione computerizzata, si traevano le traiettorie e le linee generatrici. Ad esempio, all’Observation Garden e agli spazi aperti, corrispondeva il Pas de Bourré, che rappresenta una “camminata” di lato del danzatore on pointé o sulle mezzepunte nel caso di una bare feet dance. Alla fine, l’edificio si presentava come una costruzione composta da corpi che s’intrecciavano tra loro, acquisendo una complessa forma dinamica, il cui spazio era dato dall’estensione della treccia deformata dai danzatori, che la plasmano con le loro traiettorie e la combinano coi diagrammi del sito. Di Raimo sintetizzò così il suo studio: «tracciare movimenti, con una mano, con un mouse, con il proprio corpo danzante, significa, ottenere una traccia nel tempo…».
Questa ricerca, per quanto interessante, e aperta al futuro delle nuove tecnologie tra le quali la motion graphic, presenta, a mio avviso, il limite di creare un codice di composizione architettonica basato più sull’ interpretazione dei movimenti idealizzati del danzatore rielaborato che sulla loro scientificità. Se da un lato può apparire un superamento della tecnica di Forsythe, dall’altra ne manca la forza scientifica, dovuta proprio, all’ omologazione del gesto del danzatore, che diventa un flux dancer troppo idealizzato. Alla base di ogni passo di danza, c’è e ci sarà sempre una specificità dovuta al corpo singolo del danzatore, principio del tutto estraneo a tale sperimentazione compositiva.

Altro aspetto che è stato indagato nella sperimentazione degli ultimi anni tra rapporto tra il movimento del corpo, la danza e l’architettura, è stato quello che ha coinvolto la neuroscienza. Nello specifico la ricerca di Ashley Biden, presentata nel 2012 all’ANFA Conference presso il Salk Institute for Biological Studies a La Jolla in California, ha approfondito gli effetti della danza sullo stato fisico e neurologico dell’uomo, ponendosi come fine ultimo la creazione di uno spazio neuromorfico derivante dall’impatto del movimento sull’uomo stesso. Partendo da studi scientifici26 che hanno provato come l’assistere ad una performance influenzi organi del corpo umano, come il cuore e il cervello e come il battito cardiaco e determinate zone del cervello vengano attivate dal movimento, Biren sostiene che la coreografia è in grado di alterare lo stato mentale dello spettatore, influenzandone il benessere. Attraverso questi studi la ricerca ipotizzava che anche l’architettura, come la coreografia, potesse essere progettata in funzione del benessere fisico e mentale del fruitore. Il fulcro della ricerca è il rapporto simbiotico che il coreografo e l’architetto devono riuscire a stabilire rispettivamente con lo spettatore e il fruitore, al fine di creare una scena e un’architettura che fossero rispondenti ai presupposti di partenza, ad una esperienza umana positiva. La coreografia era basata sulle “eight laws of artistic experience” (di cui Biren considera ambiguity, contrast, isolation and metaphor) di V. Ramachandran and W. Hirstein, sulle biophilia hypothesis (da cui scaturisce lo studio pattern in nature) di Edward O. Wilson, le teorie di I.G. Hagendoorn e parte dell’estetica Kantiana (che definisce unpredictability)27. Dalle considerazioni delle pose e dalle figure geometriche che si formavano, ponendo i punti di partenza dei movimenti nei piedi e nelle mani, scaturivano forme tridimensionali, architetture (di scena e non) che segnavano la simbiosi tra il movimento del corpo e la sua percezione, era quello lo spazio neuromorfologico. Tra gli ultimi progetti pubblicati, vi è un recentissimo progetto-ricerca che si inserisce nella sperimentazione di apparati tecnologici applicabili al corpo umano, E-tracce, di Leasi Trubat Gonzalez, una giovane product designer con un forte interesse nello studio della danza. La Trubat è riuscita a mettere a punto un’applicazione, grazie alla tecnologia Lilypad Arduino, per pc portatili e cellulari, che riesce a catturare i movimenti del danzatore e a trasformarli in sensazioni visive attraverso l’utilizzo di nuove tecnologie. La tecnologia utilizzata è impostata sulle scarpe da punta delle ballerine. Al loro muoversi, l’applicazione registra, attraverso alcuni microchip inseriti, la pressione, le azioni e le direzioni dei piedi e invia il segnale ad un dispositivo elettronico, che riporta tali movimenti visivamente sullo schermo. Tale applicazione rappresenta uno strumento fondamentale per l’esecuzione corretta delle coreografie e per lo studio del movimento in generale, con esso si può cominciare a parlare di un superamento della, Labanotation.

1 A. PONTREMOLI, La danza. Storia, teoria, estetica nel Novecento, Editori Laterza, Bari, 2004, p.102

2 Cfr. Y. HARDT Alwin Nikolais – Dancing Across Borders in C. GITELMAN, R. MARTIN The Returns of Alwin Nikolais: Bodies, Boundaries and the Dance Canon, Wesleyan Univ Press, Middletown, 2007, p.70

3 A. PONTREMOLI, op.cit., p.103.


4 Il Moog fu il primo sintetizzatore lanciato in commercio alla fine degli anni Sessanta. Alwin Nikolais ne commissionò il primo modello commerciale, il suo intento era creare una musica che potesse accompagnare le sue sperimentazioni sul movimento.

5 A. DALLAL, La danza contro la muerte, Universidad Nacional Autónoma de México, Instituto de Investigaciones Estéticas, 1993, p.192,

6 www.bearnstowjournal.org .Cfr. R.E. GRAUERT, The Theater of Alwin Nikolais in Bearnstow Journal

7  VACCARINO, ELISA GUZZO, La danza d’arte, Balanchine, Cunningham, Forsythe, Tre maestri della danza formale, Roma, Dino Audino editore, 2015, p. 89
8 Questa stessa tecnologia ha permesso di realizzare gli effetti speciali di film di grande successo popolare, come Harry Potter e il calice di fuoco (2005), le cui coreografie sono di Wayne McGregor.

9 Questo software per computer permette di creaare le coreografie, di combinarne le sequenze, di animare singoli figure o gruppi e visualizzarle in 3D. Si può utilizzare sia su ambiente Windows che Mac.


10 W. FORSYTHE, Choreographic Objects, in S. SPIER (a cura di), William Forsythe and the practice of choreography: it start from any point, Routledge, Abington, 2011, p.90. «Coreografia e danza sono due pratiche distinte e differenti. Nel caso che la coreografia e la danza coincidano, la coreografia spesso serve come un canale per il desiderio di danzare. Si potrebbe facilmente supporre che la sostanza del pensiero coreografico risieda esclusivamente nel corpo».

11 A. TESTA, Cento grandi balletti. Una scelta dal repertorio del migliore teatro di danza, Gremese Editore, Roma, 2007, p. 75.

12 Ibidem.

13 G. SIEGMUND, Of monsters and puppets, William Forsythes work after the ʻRobert Scott Complexʼ, in S. SPIER (a cura di), William Forsythe and the practice of choreography: it starts from any point, Abington, Routledge, 2011, p. 28. «Non puoi fare un arabesque- l’arabesque esiste come idea, Puoi approcciarti all’arabesque, muoverti attraverso di esso, e sostenerlo per un tempo più lungo o più breve. Puoi cercare di fare l’arabesque, che è molto divertente, e noi ci passiamo tanto tempo in questo tentativo».

14 Ibidem. «Non andando da un punto A ad un punto B e crescendo ad ogni punto, (ma) trasformandoli in qualcos’altro prima di proseguire ancora».

15 W. FORSYTHE, Improvisation Technologies: A Tool for the Analytical Dance Eye Hatje Cantz Karlsruhe, 2010, p.16. «The CD-ROM is not teaching a way to move. It offers training in how to sense motion traces, and also in how to develop an awareness of folding mechanics in the body. It is simply a basic approach to improvisation. Maybe less about how to improvise than about how to analyze when youre improvising. (…) In itself, its not choreography, but rather a tool for analysis».

17 C.SALTER, Entangled: Technology and the Transformation of Performance, MIT Press, 2010, p.140.

18 A. BALZOLA, Per una drammaturgia dello spettatore: esperienze e sperimentazioni nel teatro tecnologico in I. CONTE (a cura di), Il pubblico del teatro sociale, Franco Angeli, Milano,2012, p.138.

19 Ibidem.

20 O. CARPENZANO, Idea immagine architettura, Gangemi, Roma,1998, p.17. «L’Idea veniva assunta quale momento fondativo del progetto, una sorte di griglia astratta per lo sviluppo del processo».

21 O. CARPENZANO, Sylvatica, “SPAZIO ARCHITETTURA” anno V. n.64/21 novembredicembre 2003, p.23.

22Cfr. A. MONDOT, On the tangible Boundary between Real and Virtual in M. EMMER, Imagine Math 2: Between Culture and Mathematics, Sprienger, Cesano Boscone (Mi), 2013, p.182.

23 Ibidem.

24 C.BARDAINNE, A. MONDOT, Searching for a digital performing, in M. EMMER (a cura di), Imagine Math 3: Between Culture and Mathematics, Springer, 2012, p.156.

25 G. MOTTA, A. PIZZIGONI, R. PALMA, La Nuova Griglia Politecnica. Architettura e macchina di progetto, Franco Angeli, Milano, 2011, p.204.

26Ashley Biren fa riferimento a proposito agli studi del coreografo, nonché ricercatore associato del dipartimento di Cognitive and Affective Neuroscience alla Tilburg University, che ha studiato la preferenza estetica per il movimento biologico, l’empatia cinestetica e come gli schemi e le variazioni complessi possano creare stimoli e quindi far interagire tramite la vista, lo spettatore con il movimento del danzatore. In uno suo saggio, riportando una serie di esperimenti scientifici svolti, egli afferma: «Neuroimaging studies have implicated one particular region, the posterior part of the superior temporal sulcus (STS), in the perception of what has been termed biological motion. Neuropsychological studies report the case of patients with damage to brain regions involved in motion perception, but intact STS, who have difficulty recognizing motion, yet are still able to perceive biological motion (Vaina et al. 2000). In another experiment, temporarily disrupting cortical activity in the posterior STS using a technique called transcranial magnetic stimulation, resulted in impaired recognition of biological motion displays (Grossman et al. 2005). Interestingly, another study demonstrated that the posterior STS is also activated when people listen to footsteps (Bidet-Caulet et al. 2005). These findings suggest that the STS plays a central, cross-modal role in the perception of human motion». I.G. HAGENDOORN, Dance, Choreography and Brain, in D. MELCHER, F. BACCI (a cura di), Art and the Senses, Oxford University Press,2013, p.516.

27 Per ulteriori approfondimenti sulle teorie di questi ultimi citati si rimanda rispettivamente a V.S. RAMACHANDRAN, W HIRSTEIN, The science of art: A neurological theory of Aesthetic Experience, in Journal of Consciousness Studies. 6. 1999; C.JOLA, Research and Choreography. Merging Dance and Cognitive Neuroscience, in B. BLAESING, M. PUTTKE, TH. SCHACK (a cura di), The Neurocognition of Dance. Mind, Movement and Motor Skills, New York, Psychology Press, 2010; S.R. KELLERT, E. O. WILSON, The Biophilia Hypothesis, Island Press, Washington,1995.

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