(Esclusiva Campadidanza)

Parlare con Cristina Bozzolini significa ripercorrere un pezzo importantissimo, anzi fondamentale, della storia della danza italiana. Tanto che ci vorrebbero ore ed ore, se non giorni, per farsi raccontare tutto ciò che ha da dire la toscana Signora del Balletto. E’ a lei, classe 1943, prima ballerina del Maggio Musicale Fiorentino, che dobbiamo il Balletto di Toscana, oltre che un radicale rinnovamento nella didattica e nella danza contemporanea. Dopo una parentesi al Balletto di Roma, oggi mette tutta la sua esperienza, competenza e passione al servizio della Compagnia giovanile Junior BDT e dell’Aterballetto.

Signora Bozzolini, il suo avvicinamento alla danza da bambina lo si deve ai suoi genitori o fu una sua scelta?

Mia madre era musicista e mio padre pittore, ma non mi ha spinto nessuno a studiare danza, è stato un mio desiderio, o meglio una mia esigenza. Ho cominciato a otto anni e a quindici ho sostenuto la mia prima audizione che mi ha portata a lavorare al Teatro Comunale di Firenze, all’epoca pieno di ballerini stranieri. A quei tempi, infatti, in Italia non c’erano molte persone che affrontavano la professione: le bambine di buona famiglia studiavano danza per il portamento, per essere aggraziate, non per diventare danzatrici.

Lei che ne è stata la prima ballerina, come ha preso la chiusura del Maggio Danza?

Per diversi motivi è stata una notizia molto sofferta. Anzitutto, amando Firenze, trovo molto doloroso che questa città non si sia ribellata. E’ stata proprio la mia generazione ad aver lottato per avere un corpo di ballo stabile: agli inizi della mia carriera si lavorava sei/sette mesi all’anno; poi, nel ‘66, abbiamo fatto la nostra battaglia e, anche grazie all’aiuto dei sindacati, diventammo stabili per difendere la qualità. Ho così vissuto venticinque anni meravigliosi al Teatro Comunale. Devo riconoscere che rispetto ad oggi c’erano molti più mezzi, più soldi. Fummo fortunati anche ad avere un sovrintendente come Massimo Bogianckino, che amava veramente la danza. In Italia c’è l’abitudine di amare di più la musica e l’opera, ma per lui erano tutte e tre allo stesso livello.

Oggi, secondo lei, cosa si potrebbe fare per risollevare le sorti della danza nel nostro Paese?

E’ una domanda molto difficile perché collegata a tante cose. Scuole di danza ce ne sono tante, quindi l’interesse per la danza c’è, ma è superficiale. Gli stessi genitori che portano i figli a danza dovrebbero accompagnarli anche a degli spettacoli di balletto. Al contempo, seppure in un periodo di crisi, bisognerebbe dare ai giovani la possibilità di andare facilmente a teatro ed organizzare più spettacoli per le scuole. E’ vero che oggi ci sono i video, ma è sbagliato guardarli solo per vedere la pirouette: gli insegnanti, oltre a trasmettergli la passione, dovrebbero spiegare ai loro allievi perché certi balletti sono stati creati, perché in determinati periodi storici si sono affermati alcuni generi di danza. Insomma, credo ci vorrebbe quell’educazione alla danza che ora non c’è.

Nella sua carriera ha calcato il palco al fianco di Mikhail Baryshnikov e Rudolf Nureyev: un suo ricordo di questi due partner.

Quando ho conosciuto Baryshnikov, nella sua giovinezza, era il massimo dello splendore virtuosistico. Ricordo una Giselle in cui io interpretavo Mirtha, Carla Fracci era Giselle e lui Albrecht. Ad un certo punto ho sentito il pubblico fare un lungo “oh” di meraviglia, mentre si è alzato in piedi quando nel secondo atto ha eseguito la variazione famosa. Nureyev, invece, l’ho conosciuto nella sua maturità. Oltre ad essere un grande ballerino e ad avere un senso artistico meraviglioso, conosceva a fondo la storia di ogni balletto. Mi ha perciò raccontato e spiegato tante cose del balletto di repertorio – come i tanti significati de Les Sylphides di Chopin-  che non si leggono sui libri e che si possono trasmettere solo attraverso gli artisti.

Crisitina-Bozzolini-Il suo nome è chiaramente legato al Balletto di Toscana: cosa ha rappresentato e cosa rappresenta per lei?

La compagnia professionale è stata una sfida pazzesca e penso sia stata molto importante per la danza in Italia. Ha significato la possibilità di esplorare, sia attraverso coreografi italiani che stranieri, molti dei quali non si erano mai visti nel nostro Paese. Ricordo anche le nostre tournée, come quella del ‘98 in America: con circa trenta spettacoli abbiamo fatto conoscere la danza italiana. In platea c’era anche Robbins che non riusciva a credere che fossimo italiani. Adesso c’è lo Junior Balletto, che è una grande opportunità per gli allievi di conoscere la vita di compagnia e sapere come ci si comporta professionalmente prima di andare a lavorare.

Dal 2008 è direttrice artistica dell’Aterballetto. Cosa ha portato il suo ingresso alla compagnia e cosa può ancora dare?

Con Mauro Bigonzetti l’Ater era una compagnia d’autore. Tra l’altro, devo dire che lui ha lavorato con me al Balletto di Toscana e io sono stata la prima persona ad intuire già da come ballava il suo talento per la coreografia, perciò per me è stata una soddisfazione vedere quello che ha fatto. Ora, da quando dirigo questa compagnia, desidero portare contributi di innovazione, far conoscere nuovi coreografi ed esplorare. Io apprezzo infatti tutta la danza contemporanea, purché sia di qualità. L’Ater ha dei danzatori straordinari, bravissimi tecnicamente ma che hanno anche una conoscenza della danza contemporanea e soprattutto una mentalità di affrontare la ricerca e tutto quello che può portare la danza avanti. Con loro posso proporre sia la danza contemporanea che il balletto contemporaneo, due cose diverse ma sulla stessa linea di ricerca, avanzamento e scoperta. Ormai sono tre anni che Bigonzetti non crea più per la compagnia e in questo tempo abbiamo già accumulato un bel repertorio di autori diversi, sia italiani e stranieri. Penso di avere già fatto un bel percorso ma lo voglio approfondire perché l’Aterballetto vuol dire andare avanti, non fermarsi.

Nella sua intensa carriera di cosa va più fiera?

Di aver dato un grande contributo alla coreografia italiana, dandole la possibilità di esprimersi. Ma penso anche ai danzatori perché li amo molto: quando lavoro li scelgo non solo perché sono bravi ma perché sono persone in gamba, con la mentalità giusta.

Ha ancora una sfida da lanciare a se stessa?

La sfida è di far crescere ancora di più la coreografia italiana e far sì che i teatri siano pieni. Finché avrò le energie e la passione mi batterò perché la danza in Italia venga considerata come le altre arti e perché i teatri ci seguano, non solo noi, ma tutte le persone che si danno da fare per la danza. Mi piacerebbe che il pubblico andasse a teatro non solo per divertirsi ma anche per imparare, per scoprire, com’è successo a me negli anni ‘70, quando c’erano tante compagnie che proponevano cose nuove. Vorrei sentire una maggiore partecipazione, una complicità tra pubblico e artisti, e che ci fosse una consapevolezza di quanto è difficile costruire balletti di qualità.

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