ph. Francesco Squeglia
ph. Francesco Squeglia

Schiva, riservata, fortemente determinata nel suo lavoro, Alessandra Veronetti – napoletana adottiva – è una persona tutta da scoprire. Da molti anni è prima ballerina del Teatro San Carlo dove ha interpretato tanti ruoli del repertorio classico, e non solo, confermando ogni volta una grande qualità di lavoro, segno distintivo di una passione profonda.

Come ha cominciato?

Con il solito luogo comune: il calcio per i maschi e la danza per le femmine. Sono nata in Svizzera ma ho vissuto in Toscana con i miei genitori, quando ho capito che la danza era una vera passione sono entrata all’Accademia Nazionale di Danza, a Roma, dove ho studiato per molti anni con impegno professionale.

Quali sono state le difficoltà?

La più grande è stata la lontananza dalla famiglia, avevo tredici anni quando mi sono trasferita a Roma e non nascondo che è stata dura. Dopo il diploma, per quanto si possa essere più o meno dotati, la difficoltà maggiore è nel riuscire a trovare lavoro. Tutto sommato sono stata fortunata, quando ho cominciato a costruire la mia carriera c’erano maggiori opportunità rispetto ad oggi.

C’è una persona in particolare che ha inciso nel suo percorso artistico?

Direi più di una, lavorando in un grande teatro come il San Carlo si ha il privilegio di conoscere tanti coreografi e maître de ballet, con alcuni abbiamo lavorato più a lungo tra questi Ricardo Nuñez, il primo che ha creduto in me affidandomi ruoli importanti. Credo che il segreto sia di prendere da ognuno di loro il meglio, arricchendo di volta in volta la propria esperienza professionale.

Qual è stata la prima emozione legata al Teatro San Carlo?

Restare senza fiato di fronte alla bellezza del nostro teatro, il più bello del mondo. Ancora oggi è un’emozione che si rinnova ogni volta che si alza il sipario, ad ogni spettacolo.

Lei viene da una formazione classica ma ha interpretato anche tanti balletti di stile contemporaneo, potendo scegliere cosa le piace di più?

Da giovani si è attratti indubbiamente dal repertorio: giri, salti ed evoluzioni di ogni genere; maturando diventano più interessanti lo stile neoclassico e quello contemporaneo, al di là della fisicità più profonda c’è un maggiore coinvolgimento emotivo. Un bel balletto di repertorio va sempre bene ma interpretare ruoli contemporanei mi dà molta carica e arricchisce il lato espressivo, denso di sfumature.

Qualche anno fa ha interpretato Giselle nella versione di Mats Ek al fianco di Roberto Bolle, un grande successo di pubblico e critica…

Ballare da protagonista in un balletto come Giselle al fianco di Roberto Bolle è un po’ come scalare una montagna molto alta, nel senso che è una grande responsabilità. Bolle è stato adorabile, non ha fatto pesare per niente il fatto di essere uno dei più grandi danzatori del mondo! In teatro avevo già ballato la versione classica di Giselle ma quella contemporanea di Mats Ek è tutt’altra cosa, sia Pompea Santoro che il marito Veli Pekka Peltokallio sono stati fantastici nel rimontarla, ci hanno aiutato tanto e il risultato è stato una bella soddisfazione per tutti.

Tra i tanti balletti interpretati ha danzato anche Without words di Nacho Duato, un’esperienza nuova l’incontro col coreografo spagnolo?

Un’esperienza bellissima, la fortuna di lavorare con Nacho Duato non capita a tutti. I primi giorni le difficoltà sembravano insormontabili, il suo è uno stile molto particolare fatto di linee geometriche ma estremamente fluido nella dinamica; Tony Fabre, l’assistente con cui abbiamo lavorato è stato bravissimo. Quando è arrivato Nacho Duato c’era una bellissima tensione propositiva, è una persona solare, semplice, disponibile, anche se può sembrare strano visto che è considerato uno dei grandi coreografi contemporanei.

In tanti anni di carriera al Teatro San Carlo ha vissuto alti e bassi lavorando all’interno della compagnia, cosa vorrebbe poter fare in questo momento così difficile?

La danza rispecchia la situazione precaria di tutti i teatri. La nostra è una compagnia particolare, piccola e da poco rinnovata nell’organico; con i ballerini aggiunti cerchiamo di fare gruppo, il nostro punto di forza è quello di avere un’anima, ogni coreografo che viene resta sorpreso dal risultato finale. Nonostante tutte le difficoltà lavoriamo con impegno ed entusiasmo. Mi piacerebbe che tutto questo venga messo in luce, che ci sia data la possibilità di ballare di più. Viviamo con orgoglio l’appartenenza ad un teatro meraviglioso.

Che cos’è la forza?

Non arrendersi mai nonostante tutto quello che può succedere, andare sempre avanti con ottimismo sperando che le cose migliorino.

La danza è cambiata negli ultimi anni, lei come vive questa nuova realtà?

Tutto deve cambiare, non può rimanere sempre uguale. La ricerca di un linguaggio nuovo è infinita. Verso la danza c’è un interesse forse un po’ distorto, si è creata una forte scissione tra la danza nei teatri e quella televisiva. Sarebbe interessante far vedere come si lavora all’interno dei teatri, quale dovrebbe essere il comportamento di un allievo nei confronti del maestro, ben diverso da ciò che si vede in televisione.

Qual è il suo ruolo preferito?

Dire Giselle sarebbe scontato. Mi piacciono i ruoli drammatici, con una crescita nell’interpretazione emotiva oltre che tecnica.

Secondo lei qual è la dote che non può mancare ad un danzatore?

Le doti fisiche indiscutibilmente aiutano ma l’intelligenza è la cosa più importante, aiuta a conoscersi, a sapere come lavorare sul proprio corpo e questo fa migliorare.

Ce l’ha un sogno da realizzare?

No, cerco di godermi ciò che ho senza andare troppo oltre sognando imprese impossibili. Credo che la cosa migliore sia vivere nel presente a trecentosessanta gradi.

Che cos’è la danza per lei?

Un’arte liberatoria attraverso la quale riesco ad esprimermi.

Elisabetta Testa

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