Per l’inchiesta Covid-19/Si cambia danza- niente sarà più come prima, Virginia Spallarossa, direttrice artistica della compagnia Déjà Donné, con sede a Milano, ci parla delle nuove tecnologie, della crisi dello spettacolo dal vivo, della formazione e del post pandemia.

I teatri sono chiusi e gli artisti cercano nuove modalità di contatto con il pubblico. Anche lei, come molti, sta usando le piattaforme streaming?

Tanto nel 2020 che nel 2021 ho usato le nuove tecnologie per riuscire a garantire le date di due spettacoli che, dopo la seconda ondata pandemica, rischiavano di saltare a causa della chiusura dei teatri. Spero tanto che ciò non si ripeta e non perché abbia qualcosa contro le nuove tecnologie, o lo streaming in particolare, ma soltanto perché credo che il video rimandi una rappresentazione assolutamente non aderente a quella a cui si assiste in teatro. Viene a mancare completamente la relazione tra il pubblico e l’opera, sia che si tratti di musica, danza o teatro.

Nelle due occasioni in cui ha usato queste piattaforme, lo ha fatto trasferendovi il lavoro che aveva pensato per il teatro o ha creato qualcosa in funzione dello strumento che stava per usare?

Uno di questi spettacoli è stato creato apposta per lo streaming. C’è un teatro, il Café Müller di Torino, che ha proposto degli appuntamenti con alcuni artisti e, in occasione di uno di questi incontri, ho presentato, in collaborazione con Nicoletta Cabassi, un lavoro che prevedeva un allestimento studiato specificamente per il video. Il Café Müller, infatti, ha investito, durante l’emergenza, in una regia e in tecnologie che offrono qualcosa di meglio di una semplice ripresa video. Nell’altra occasione in cui mi sono servita dello streaming, invece, c’era solo una camera fissa, cosa che, secondo me, ha reso molto difficile la fruizione da parte dello spettatore.

L’assenza di pubblico dal vivo, quindi, cambia la danza?

Beh diciamo che senza il pubblico non c’è spettacolo. Basta anche la presenza di una sola persona perché ci sia questa magia e questo scambio tra artista e spettatore. Senza pubblico dal vivo manca il 50 per cento dello spettacolo.

La corporeità si perde o assume nuovi significati?

Secondo me non c’è nessuna corporeità, nel senso che per corporeità intendo, al di là della presenza fisica di chiunque possa stare in scena, anche i grugniti, gli odori, gli schizzi di sudore. È proprio la presenza fisica che uno schermo non può assolutamente ridare e far vivere.

Secondo lei c’è anche la possibilità di ottenere dei risultati artistici innovativi sfruttando piattaforme streaming? Magari creando qualcosa ad hoc per la proiezione video?

Ci possono essere sicuramente degli esperimenti interessanti, abbiamo anche esempi di lavori innovativi realizzati in passato, ma appartengono a un altro linguaggio, perché c’è una camera con un operatore che decide cosa seguire. Il lavoro video mette in condivisione due discipline che possono essere complementari, ma diverse, che seguono due linguaggi differenti, regole differenti. È sicuramente aperto alla sperimentazione, però è proprio un’altra cosa, un altro linguaggio.

La pandemia non ferma la creatività, ma forse cambia il processo creativo. Crede che quest’esperienza stia cambiando il suo modo di fare, creare e organizzare?

Quello che posso dire è che la pandemia ha viziato, se non distrutto, la ciclicità di un sistema che trova il suo senso e resta sostenibile solo se a regime. Io parlo da direttrice artistica della compagnia di danza contemporanea Déjà Donné che, come ogni organismo di produzione, per il fatto di non poter rispettare questa ciclicità, rischia che tutto il lavoro e gli sforzi di anni vadano perduti. Ciononostante, non scendo a compromessi, preferisco produrre rispettando i processi tradizionali. Non credo che un lavoro come il nostro possa essere completamente snaturato nei suoi processi basici legati alla creazione e, quindi, legati alla presenza, al contatto, all’esperienza che si fa in sala con altre persone.

Dal punto di vista artistico/creativo, crede che la pandemia abbia fatto scoprire qualcosa che si potrà usare anche in seguito?

Quando un sistema si trova scosso e rischia di essere distrutto, si cerca di mirare e di guardare alle cose che possono avere un’importanza determinante nel funzionamento delle cose. In questo senso, quest’anno, ho scremato i miei pensieri. Ho dovuto rivedere alcune dinamiche relative alla compagnia, alla creazione, ai rapporti con dipendenti, operatori e a qualsiasi cosa appartenga al nostro mondo, perché tutto è stato completamente ribaltato.

Si può pensare a un nuovo modello di ritorno economico basato sulle piattaforme streaming?

No, io non vedo come questo modello possa essere sviluppato al di là dell’emergenza. Probabilmente è un mio limite. Forse non lo voglio vedere. Proprio non concepisco quest’alternativa né la ritengo una risposta sostenibile.

Secondo lei i canali tematici come Rai 5, Sky Arte, Sky HD, potrebbero sostenere lo spettacolo dal vivo durante e  anche dopo la pandemia?

Riconosco il valore di alcuni canali, sicuramente di Sky Arte, però non credo che questi canali possano sostenere lo spettacolo dal vivo. Il teatro è molto stratificato, ciò significa che c’è chi ha molta visibilità, ma anche chi non ne ha nessuna, perché fa un lavoro di nicchia. Il problema delle emittenti televisive è che l’unica danza che trasmettono è quella che non ha bisogno di visibilità e di sostegno, che va incontro al gusto degli appassionati dell’opera.

Crede che alcune persone possano essersi allontanate dal teatro in questo periodo di forzato isolamento?

A causa della pandemia, chi non era un habitué del teatro o i più giovani che cominciavano timidamente ad avvicinarsi, potrebbero aver perso interesse e ora avere anche paura. Ma spero di no e voglio credere che tutto torni come prima o meglio di prima.

Cosa ne pensa delle comunità virtuali che la pandemia ha creato fra danzatori e pubblico?

Sono quelle che hanno permesso un fermento nel mondo del teatro e non solo. Hanno anche dato il modo, attraverso tavole rotonde o meeting molto interessanti, di capire cose che gli stessi addetti ai lavori ignoravano. Mi riferisco ai danzatori e al movimento che si è creato per capire come dare un senso al lavoro e a come tutelarlo. Queste comunità rappresentano una modalità di scambio e di conoscenza reciproca e forse non si perderanno.

Secondo lei, perché lo spettacolo dal vivo è indispensabile alla vita sociale?

Perché il teatro è la vita, molto semplicemente.

Ha timori riguardo la sopravvivenza dello spettacolo dal vivo?

No, perché il teatro c’e sempre stato e ci sarà sempre. Quello che mi preoccupa di più sono i meccanismi che lo governano. Sappiamo bene che il nostro settore si sostiene con grande difficoltà. Che si faccia parte o no del MIC, è comunque complicato. Diciamo che questa pandemia ha semplicemente scoperto gli scheletri del sistema spettacolo. Bisogna solo sperare che sia l’occasione per mettere in discussione la legge dello spettacolo e il suo funzionamento istituzionale.

Si dice che una crisi è sempre allo stesso tempo un pericolo e un’opportunità. Quali sono i pericoli di questa crisi?

I pericoli dipendono dal proprio ruolo all’interno di questo settore. Nel mio caso, dovendo gestire un organismo di produzione, i pericoli sono di non poter garantire stipendi regolari né una regolare produzione, quindi, il pericolo è quello di perdere ‘pezzi’ per strada. Una crisi così devastante, infatti, può essere insostenibile per molte persone e, perdere elementi del proprio team, vuol dire buttare tanti anni di lavoro e crescita insieme.

E le opportunità?

E’ importante arrivare al vero senso delle cose. Quando si lavora a pieno regime, si è in un frullatore, e diventa complicato far bene ogni cosa. Il tempo ‘libero’ che la pandemia ci ha concesso e ci sta concedendo ancora, può aiutare a mettere le cose nella giusta prospettiva. Personalmente mi sono dedicata a progetti che spero, prima o poi, di realizzare.

Lei dice che una delle criticità del sistema, in questo momento di pandemia, è quella di perdere ‘pezzi’ perché non si può lavorare e produrre a pieno regime. Dall’altro lato, però, afferma che quando si è a pieno regime, non si riesce a dare il giusto valore alle cose. Qual è la soluzione?

La via di mezzo. Cinque anni fa ho assunto la direzione artistica della Déjà Donné e il 2020 doveva essere l’anno in cui finalmente raccogliere i frutti dei sacrifici fatti. La pandemia ha compromesso questo traguardo, ma oggi sono più lucida nell’affrontare i problemi e nel progettare il futuro della compagnia. Quindi, il lavoro a pieno regime è importante, ma solo se contemporaneamente si riesce a dare un senso e un valore a quel che si fa.

Procurarsi un lavoro è molto difficile anche in tempi normali. Che cosa pensa bisognerebbe cambiare per rendere più facile la ricerca del lavoro?

Io ho scelto di creare una compagnia di danza con un nucleo di lavoro stabile, ‘all’antica’. Ha un gran valore avere delle persone accanto, che vogliono fare un pezzo di strada insieme. Questo consente di dare una chiara identità ai danzatori e di garantire loro un lavoro regolare, cose che solitamente sono molto complicate. Avere compagnie con un organico stabile, sicuramente aiuterebbe.

Quanto tempo, energie e risorse portano via al suo impegno artistico le problematiche relative alla gestione economico-amministrativa?

L’ottanta per cento del tempo.

Secondo lei ci sono delle soluzioni “a portata di mano”?

Rispetto alla gestione economico-amministrativa, credo che sia un buon amministratore a rendere possibile il lavoro. Personalmente, devo tutto al mio ‘organizzatore’ Claudio Borò. È lui che mi ha insegnato il lavoro di direttore artistico (per la parte che concerne l’amministrazione della compagnia). Senza competenze di un certo tipo, una compagnia non va assolutamente da nessuna parte, da questo punto di vista, sono stata molto fortunata.

Ritiene che l’Umbria sia adeguatamente sostenuta dalle risorse pubbliche (nazionali e locali)?

Il sostegno che riceve l’Umbria è ridicolo. 

Cosa pensa si potrebbe o dovrebbe fare per far conoscere il settore della danza al pubblico, ai media e soprattutto ai politici.

Dovrebbero semplicemente informarsi e ‘studiare’ la materia. Questa pandemia ha reso cristallino il fatto che chi gestisce il comparto dello spettacolo dal vivo non sia assolutamente competente. Durante questa emergenza, infatti, coloro che occupano ruoli istituzionali hanno mostrato la propria inadeguatezza nel prendere decisioni. Quindi, soprattutto i decisori politici, dovrebbero imparare a conoscere la materia: la danza, lo spettacolo, i teatri.

I teatri programmano pochissimi spettacoli di danza, soprattutto contemporanea, perché?

Perché gli spettacoli non sono belli. I teatri si riempiono solo quando vanno in scena grandi classici. Accogliamo tantissime compagnie straniere che degnamente mantengono vivo il repertorio di due secoli fa, ed è giusto. Trovo, invece, che nel settore della danza contemporanea ci sia una qualità sicuramente inferiore. Non penso che le coreografie vadano fatte secondo il gusto del pubblico, ma troppe volte la danza perde seguito a causa di spettacoli incomprensibili e stupidamente provocatori.

C’è una distinzione tra teatri pubblici e privati da questo punto di vista?

Non credo. Sicuramente un teatro privato ha delle regole di sostenibilità molto più stringenti, ma ci sono, anche nell’ambito dei privati, realtà virtuose. Penso al teatro sociale di Como, che lavora sul territorio ‘fidelizzando’ il suo pubblico sin dall’infanzia e coinvolgendo l’intera cittadinanza in mille progetti. Ci dovrebbero essere più teatri legati al territorio.

L’Accademia Nazionale di Danza è l’unica istituzione di alta formazione in Italia…

Il problema è noto a tutti. E il paradosso è che l’Accademia sia l’unica struttura che dia un riconoscimento che permetta di insegnare, un insegnamento anacronistico rispetto all’evoluzione che ha avuto la danza negli ultimi decenni.

E cosa pensa della Didattica a Distanza ormai entrata anche nel mondo della danza.

Trovo sia assolutamente inutile.

Il ricambio generazionale in Italia è difficile, anche nella danza. Secondo lei perché?

Il ricambio generazionale è solo apparente. In Italia c’è un fenomeno di ‘meteore’, alimentato dal sistema creato per gli Under 35. La stragrande maggioranza dei bandi, così come la quasi totalità delle opportunità sono destinate a questa categoria. Danzatori che però, troppo spesso, non trovano collocazione nel mondo del lavoro delle compagnie.

Cosa ne pensa delle politiche di sostegno alle imprese giovanili?

Sono le più sostenute. I giovani hanno più opportunità e visibilità di tutti. Faccio un esempio molto concreto: sottopagare un danzatore in cambio di visibilità è una cosa che non sta né in cielo né in terra, eppure molti danzatori accettano la qualunque pur di esserci, pur di lavorare anche con contratti non regolari e senza il minimo sindacale, finché non scoprono che cosa sia l’INPS e il sistema del mondo del lavoro.

Se improvvisamente avesse il potere di risolvere i problemi del mondo della danza che cosa farebbe?

Io partirei dalla formazione. A differenza dell’invidiabile sistema dei nostri vicini francesi, noi abbiamo migliaia di scuole di danza ma che non abbiamo un pubblico di danza. Io partirei con l’assicurare una formazione degna del nome a tutti gli allievi delle scuole che ci sono sul territorio, come fanno i cosiddetti conservatori in Francia. Per me si parte sempre dalla base, anche per quanto riguarda la creazione, più vado avanti e più torno indietro e quindi penso sempre che le risposte non siano in proiezione, ma alla base di tutto.

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