Salvo Lombardo

Salvo Lombardo è performer, coreografo, regista multimediale e curatore. Direttore artistico di Chiasma (organismo di produzione della danza under35 riconosciuto dal Mic), la sua ricerca artistica si muove nell’interdisciplinarietà tra la danza, il teatro e le arti visive con una grande attenzione al video. I suoi lavori sono stati ospitati in numerosi festival, teatri, musei e spazi indipendenti in Italia e all’estero. Dal 2012 al 2015 è stato regista e attore per Clinica Mammut. È stato coreografo residente ad Anghiari Dance Hub, coreografo ospite per Aura Dance Theatre di Kaunas e ha collaborato assiduamente con Fabbrica Europa. In qualità di artista associato al Festival Oriente Occidente ha lavorato a Reappearances per il Museo MART di Rovereto con il coinvolgimento della comunità locale.

Dal 2018 lavora al progetto L’esemplare capovolto realizzando un ciclo di performance, installazioni, conferenze, workshop e la creazione dello spettacolo Excelsior in coproduzione, tra gli altri, con Théâtre National de Chaillot di Parigi, Romaeuropa Festival e lo spettacolo AMOЯ (2021) creato per e con Fattoria Vittadini in coproduzione con MILANoLTRE, con il sostegno di Teatro di Roma; per lo stesso ciclo, assieme a Daniele Spanò, è autore dell’opera video Wasn’t built in a day. Dal 2019 è co-curatore con Viviana Gravano e Giulia Grechi di Resurface Festival a Roma; un festival multidisciplinare incentrato sulle pratiche decoloniali e focalizzato sulle relazioni tra gli immaginari coloniali e le rappresentazioni contemporanee. È, inoltre, tra i soci fondatori di Ostudio, uno spazio indipendente di coabitazione artistica e di ricerca cross-mediale.

Dal 2021 è artista associato alla Lavanderia a Vapore e invitato dal magazine Roots§Routes_Researches on Visual Cultures come co-curatore ospite per il numero Anche le statue muoiono. Nel 2021 è stato curatore di Interazioni a Roma, una rassegna basata sullo scambio di pratiche tra dancemaker e pubblico. Recentemente è uno degli artisti coinvolti nel progetto europeo MMDD (incentrato sulla ricerca sulla micro e macro drammaturgia nella danza) e insieme a Chiasma è uno dei partner del progetto 18M8L (un network orientato alla mobilità artistica finanziato da Boarding Pass Plus). Nel 2021 è stato selezionato come artista dal network europeo BeSpectActive! per il quale ha ideato Punctum, un’opera comunitaria e interattiva che indaga le dinamiche di spectatorship su larga scala  e che coinvolge 12 paesi europei.

Abbiamo intervistato Salvo Lombardo in occasione dell’Inchiesta Covid 19-Si cambia danza.

IL nuovo utilizzo del digitale

Con i teatri e i luoghi di spettacolo chiusi gli artisti hanno cercato e cercano tuttora nuove modalità contatto col pubblico, come l’uso delle tecnologie e delle piattaforme streaming. Lei ha usato o sta usando piattaforme streaming?

No, non ho usato le piattaforme streaming per la diffusione dei miei lavori. Ho deciso di non praticare quella strada e ho preferito, laddove possibile, tradurre formati e/o inventarne di nuovi per l’ambiente digitale o eventualmente anche per la diffusione streaming.

Crede che quindi sia più proficuo o interessante creare nuovi contenuti?

Per quello che riguarda strettamente me come creativo, sì. Mi è capitato sia di tradurre in qualche modo dei processi già in atto per il digitale sia di inventare nuovi formati per il digitale. Invece l’unica cosa a cui ho rinunciato è quella di trasmettere un lavoro preesistente nato per la scena. Penso che l’ambiente digitale non possa e non debba essere un territorio di supplenza della relazione dal vivo. Ritengo inoltre che la trasmigrazione di un lavoro nato per l’ambiente teatrale in un ambiente digitale possa e debba essere una pratica accompagnata da mezzi tecnici, competenze, risorse produttive e sguardo registici non di secondo grado.

I cambiamenti provocati dalla pandemia

L’assenza di pubblico dal vivo ha cambiato e cambia la danza? La corporeità si perde o assume nuovi significati?

Nella mia vita, nel mio lavoro e nel mio percorso, ho deciso e ho sentito sempre di dover alternare modalità, linguaggi e formati, spostandomi quindi continuamente dalla produzione pensata direttamente per il palcoscenico alla produzione e al lavoro pensato per spazi alternativi al luogo teatrale, fino ad arrivare a pratiche che con il teatro non hanno legami strettissimi o che comunque ce l’hanno con una certa marginalità. Ho realizzato e studiato pratiche più legate all’ambito delle arti visive, all’arte relazionale, alla community art, all’arte pubblica. Dunque, al di là della pandemia, per me ogni singolo progetto ha una sua singola inclinazione, ha delle sue specificità di relazione che non passano necessariamente per quel rapporto canonico scena-platea. La pandemia ha modificato la relazione e ha, di conseguenza, trasformato una serie di possibilità o le ha inibite.

Quanto e come l’ha cambiata l’esperienza della pandemia in quanto artista e lavoratore dello spettacolo?

Sono certo che ci siano dei cambiamenti e che, anzi, molte evoluzioni siano ancora in atto… forse su come questa esperienza mi stia cambiando dovremmo aggiornarci tra 5 o addirittura 10 anni. Tuttavia ho la sensazione che i cambiamenti principali abbiano a che fare con la sfera del tempo, con la durata delle cose e con l’arcata temporale nell’organizzazione del lavoro.

Lo spettacolo dal vivo e la distribuzione streaming

Le modalità di distribuzione attraverso le piattaforme o i canali tv hanno modelli economici molto diversi da quelli dello spettacolo dal vivo. Secondo lei che tipo di rapporto ci sarà tra lo spettacolo dal vivo nella sua configurazione reale e la distribuzione streaming?

Per quel che mi riguarda posso dire che alcuni contenuti – soprattutto se osserviamo l’orizzonte mainstream – avevano già una loro distribuzione audiovisiva, attraverso la tv e il cinema. Pensare di interagire con quel sistema dal punto di vista dello spettacolo dal vivo implica il dover analizzare questo tipo di produzione anche dal punto di vista del mercato. Di un mercato molto specifico che non può essere afferente alla filiera del cinema e delle piattaforme TV. Trattandosi di mercati comunque bisognerebbe capire chi stimolerà la domanda e di conseguenza chi risponderà a quella domanda generando un’offerta. Occorre evitare che queste modalità distributive siano un ulteriore contesto per micro-posizionamenti di potere secondo logiche che nulla hanno a che vedere con il lavoro sul campo e soprattutto con chi fa davvero ricerca, qualsiasi cosa questa espressione voglia dire.

Questa lunga situazione legata all’emergenza ha cambiato il rapporto con il pubblico. In che modo?

Penso che il lavoro con il pubblico, anzi, con i pubblici, necessiti di una grande competenza e apertura alla comprensione e all’analisi del momento storico, da un punto di vista sociale e politico, oltre che culturale. La Comunità europea ha messo al centro delle politiche culturali, già da molto tempo prima della pandemia, le questioni legate all’audience engagement e all’audience development. Questo aveva generato processi e interpretazioni estremamente eterogenee di queste linee di ricerca, incorrendo, in alcuni casi, in facili approcci populisti nella analisi del rapporto tra produzione e ricezione del pubblico. Con la pandemia e le sue conseguenze il discorso sul pubblico è ritornato in auge; bisogna capire in che direzione spingerlo: credo ci siano i presupposti per continuare e anzi migliorare la strada già intrapresa. In Italia abbiamo un esempio molto virtuoso in questo senso: la Lavanderia a Vapore di Collegno (in particolare grazie alla ricerca di Mara Loro. Già prima della pandemia, stavano lavorando sulla sperimentazione di pratiche orientate sulla reciprocità tra il gesto artistico e il contesto entro cui questo si esprime; nonché sulla ri-mediazione e la messa in circolo concreta dei processi artistici in dialogo con micro e macro comunità di riferimento.

Secondo lei lo spettacolo dal vivo indispensabile alla vita sociale? Se sì o no, perché?

Io penso che lo spettacolo dal vivo – o, per meglio dire, il concetto di liveness – continui ad avere una funzione centrale. Non so dire se è più o meno dispensabile rispetto ad altri sistemi artistici… ma non credo che i processi artistici debbano essere soggetti a una scala di valori di importanza.

Poco spazio per la danza nelle programmazione dei Teatri

Il sistema dello spettacolo dal vivo e più ancora il settore della danza sembra poco conosciuto dal pubblico, dai media mainstream e dai decisori politici. Cosa pensa si potrebbe o dovrebbe fare a riguardo?

Questa domanda ha molte implicazioni. Riguardo agli operatori politici posso dire che sicuramente auspico profili sempre più specificatamente specialistici rispetto all’ambito in cui operano. In ambito culturale non di rado assistiamo a nomine, soprattutto se si tratta di posizioni apicali, il cui background poco si riferisce ad una conoscenza approfondita dei processi che sorreggono il sistema in cui operano. Rispetto al pubblico e ai media in generale credo che per colmare quel deficit ci sia sempre più bisogno di un posizionamento culturale che parte dalla politica.

Parliamo degli spazi della danza e del suo ruolo marginale nell’ambito della programmazione. Perché i teatri programmano la danza in una misura inferiore rispetto alla prosa? È vero, secondo lei, che la danza ha poco pubblico?

No. La danza ha poco spazio nelle programmazioni e probabilmente di conseguenza ha poco pubblico; il fatto di avere poco pubblico non è una causa ma è un effetto. Uno dei motivi probabilmente è l’ostinazione, veramente anacronistica, di separare ancora le discipline nelle programmazioni. Le griglie, i comparti rigidi non hanno fatto altro che acuire alcune posizioni di arroccamento dentro le maglie della “disciplina”. Ma non è così nei fatti e nella pratica e quindi non dovrebbe essere così neanche a livello di sistema. I “contenuti” artistici ormai da decenni, tendenzialmente, hanno superato queste divisioni. I “contenitori” invece sono come incancreniti in una pseudo settorialità. Per non parlare dei processi analitici al cospetto di quei “contenitori.

Formazione dei danzatori e delle professioni della danza. Che tipo di formazione ha avuto? Quali sono le criticità secondo il suo punto di vista?

Ci sono tanti, troppi problemi. La mia è una formazione talmente eterogenea rispetto alla danza che non è mai avvenuta in contesti ufficiali né accademici ma in contesti disparati: laboratori e/o workshop in Italia e all’estero, spazi indipendenti. Quindi sto parlando di una formazione che ho costruito e cucito su me stesso rispetto ai miei interessi. Oggi quello che percepisco è soprattutto un desiderio di professionalizzare ma dotandosi di strumenti professionali che non sempre sono al passo con i tempi ma anzi anacronistici e pretenziosi di efficacia “universale”. Ci sono ovviamente felicissime eccezioni di altre validissime scuole (la cui titolarità non è riconosciuta come lo è nel caso dell’Accademia Nazionale) c’è un variegato vivaio di studenti e studentesse che hanno piena consapevolezza della situazione e che dunque utilizzano quel contesto di formazione consapevoli che il raggiungimento di un titolo non può considerarsi il punto di arrivo per questo tipo di percorsi, bensì un minuscola finestra di ingresso nel campo delle pratiche.

IL ricambio generazionale e il sistema delle residenze

Cosa ne pensa della didattica a distanza che anche nella danza si è diffusa nel nostro paese e non solo? Avrà futuro?

Non me ne sono assolutamente occupato. L’ho trovato un modo come gli altri di occupare il tempo.

Il ricambio generazionale in Italia è difficile anche nella danza, secondo lei perché?

Per quel che riguarda il mondo dello spettacolo dal vivo e poi allo specifico della danza il cosiddetto ricambio generazionale è una questione di cui si è già dibattuto molto anche con importanti passi avanti rispetto al passato. Oggi in Italia ci sono molti strumenti: c’è il sistema delle residenze, per esempio, che in qualche modo assolve a questa funzione implicitamente. E poi ci sono dei contesti più legati alla messa in rete di quest’esperienze: vetrine, premi e quant’altro. Rispetto ai decenni precedenti si ha il vantaggio di creare un campo di accessibilità, un sistema un po’ più diffuso, leggermente più capillare (seppure ancora con maggiore attenzione al Nord Italia) e – probabilmente – un po’ meno selettivo e esclusivo. Il risvolto della medaglia, tuttavia, è che operando a livello sistemico è inevitabile che questi contesti assorbano e restituiscano modalità operative del tutto conformi alle logiche produttive capitalistiche. Sar ebbe bello, adesso, sistematizzare questo “capitale culturale” conquistato a fatica e aggiornarlo ulteriormente, declinandolo all’assetto di questo disperato presente e infine depurarlo dalle ossessioni iper-produttiviste.

Se improvvisamente avesse il potere di risolvere i problemi del mondo della danza che cosa farebbe per prima cosa?

Forse partirei dalla formazione, rifonderei ex novo tutti gli enti di formazione, eliminando questa suddivisione rigida tra le discipline.

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