Roberto Zappalà

Roberto Zappalà è considerato uno degli autori rappresentativi della coreografia italiana a livello internazionale. Ha lavorato come danzatore collaborando con diverse compagnie fino a quando nel 1990 ha fondato il Balletto di Sicilia divenuto poi Compagnia Zappalà Danza. Da allora è stato ed è tuttora un coreografo prolifico, con oltre 80 produzioni che hanno circuitato in tutto il mondo. È stato coreografo ospite in compagnie e teatri italiani e stranieri e si è dedicato alla trasmissione del metodo MoDem (acronimo di movimento democratico) mediante seminari, workshop e corsi di formazione. Nel 2002 ha fondato il centro Scenario Pubblico, situato nel cuore di Catania, che sin da subito ha ospitato le molteplici attività di produzione, ospitalità, residenze e formazione e che nel 2015 è stato riconosciuto Centro Nazionale di Produzione dal MiC.

Lo abbiamo intervistato per riflettere sulle condizioni del mondo della danza e dello spettacolo dal vivo, per parlare di video, di produzione e distribuzione.

Roberto, come autore e come fruitore che rapporto ha con la produzione e la visione di contenuti in streaming?

Per ideologia non sono affatto contrario. Sicuramente dal punto di vista produttivo e creativo bisogna prepararsi e non improvvisare, bisogna avvalersi di professionisti e strutture in grado di supportare realmente la messa in scena mediante il video. Bisogna avere un’idea registica per il video, una cosa per nulla scontata. Come fruitore, devo ammettere, sono meno contento perché ho bisogno costantemente di effetti emotivi, e quelli riesce a darmeli solo il live. Però ecco, per alcuni eventi collaterali (i talk, le conferenze stampa, oltre che riunioni e meeting organizzativi) la possibilità di ottimizzare tempi e risorse mediante l’uso del virtuale è molto utile.

Rispetto alla produzione di opere della sua compagnia avete creato nuovi progetti o trasportato in “digitale” alcuni brani di repertorio?

Abbiamo fatto entrambe le cose. Sono felice che comunque su Rai5 vengano proposti estratti, interviste e contenuti legati alla compagnia. In generale però abbiamo provveduto noi stessi mediante i canali web alla diffusione di nostri contenuti come A. semu tutti devoti tutti? sul canale YouTube della compagnia o di altri nuovi progetti dedicati e aventi come protagonisti i giovani.

Questo uso della tecnologia sia dal punto di vista produttivo che distributivo sta cambiando le condizioni artistiche. La mancanza di pubblico ha determinato qualcosa di nuovo?

Certo. Per quanto mi riguarda la mancanza del pubblico è determinante per l’artista in scena. Nella danza poi – tranne rarissimi casi eccezionali – si è trattato di una condizione del tutto nuova. Pensi alla professione dell’attore di teatro, di parola. Quasi tutti gli attori e le attrici vivono e lavorano sul doppio binario: uno è il teatro e la dimensione dal vivo, l’altro è il cinema o la televisione, registrata. Per la danza questa condizione, ripeto, tranne rarissimi casi, non esisteva. Il danzatore pensa alla sua professione come qualcosa che si svolge qui e adesso e con una forma di platea viva quanto lui e insieme a lui nello stesso istante. Ora va bene che ci sia un’integrazione tra le due dimensioni, alcuni scopriranno nuove possibilità, altri le rifiuteranno. Fa parte del bellissimo gioco della creazione artistica.

I suoi processi artistici sono cambiati grazie al momento storico legato alla pandemia?

Non del tutto. Al momento, comunque, non mi interessa sperimentare con il video. L’ho fatto in passato quando ho creato per i musical o per installazioni ma adesso non è tra le mie priorità. Resto comunque apertissimo a qualsiasi stimolo, come sempre. Quindi questa dichiarazione può ribaltarsi da un momento all’altro! Per il resto il mio modo di costruire e pensare è rimasto invariato dal punto di vista della modalità, sono sempre io. Si è intensificato il tempo a disposizione, soprattutto nella prima fase di stop totale delle attività che coinvolgevano tour, spettacoli, prove e lezioni. Ho avuto modo così di dedicare più tempo ad alcune necessità, di ascoltare tantissima musica, di lavorare con l’immaginazione in maniera duratura e intensa più del solito.

Secondo lei a partire da questo periodo sarà possibile attuare nuove strategie congiunte di produzione di spettacolo dal vivo mediante il video e i canali destinati alla diffusione in video?

Dipende da quanto saranno competenti e visionari coloro che selezioneranno e/o sosterranno le nuove produzioni. Io penso sia comunque doveroso immaginare di produrre qualcosa che sia pensato e prodotto esclusivamente per il video. Se questa produzione partirà dalla Tv di Stato, visto che ne abbiamo una, sarà ancora meglio. Però sarà necessario che ai vertici di questa azienda ci sia qualcuno in grado di formarli e informarli che per i canali principali (e non parlo di Rai5) non esiste solo il balletto classico o lo show di un Roberto molto più famoso di me (Bolle, ndr). Sarebbe interessante variare un po’, inserire anche altro. Sono loro che dovrebbero trovare il modo giusto per farlo e proporlo a tutto il pubblico che segue la televisione.

Parliamo di pubblico. In che modo è cambiato il suo rapporto con il pubblico in questo ultimo anno e mezzo?

Diciamo che da frequentazione assidua e intensa è diventata una frequentazione diversa, distante e quindi più fredda. Ho alcuni timori ma spero che chi frequentava prima riprenderà a farlo con maggiore gioia e maggiore consapevolezza. E, spero, che ci siano nuovi occhi. Qualcuno che magari si è appassionato a qualcosa che abbia a che fare con l’arte dal vivo perché magari durante i periodi di noia e di sconforto di uno dei due lockdown è capitato su qualche piattaforma a guardare qualcosa. Mi auguro ci siano nuove teste e nuovi cuori in grado di amare i lavori degli artisti.

Qual è il suo spettatore ideale?

Ho notato che la danza contemporanea ha sia un pubblico molto giovane che un pubblico estremamente maturo. Questo è un bene. Per quanto riguarda me il mio spettatore ideale è una persona intellettualmente generosa e felice.

Lo spettacolo dal vivo è indispensabile alla vita delle persone?

Sì e come spesso accade ci si rende conto di qualcosa o di qualcuno di indispensabile solo nel momento in cui lo si perde. Inoltre aggiungo che la danza è l’arte del futuro, perché tutti abbiamo un corpo e possiamo usarlo, in maniera assolutamente ampia, versatile e democratica.

Si dice che una crisi è sempre allo stesso tempo un pericolo e un’opportunità. Quali sono i pericoli e le opportunità di questa crisi?

Chi fa arte contemporanea è in qualche modo sempre chiamato a illuminare i tempi bui, a decontestualizzarli o contestualizzarli a seconda delle necessità dettate dal periodo storico. Lavoriamo – e mi ci metto anche io – per cercare e innescare cambiamenti continui che ci coinvolgono come individui e come società. Il pericolo maggiore io lo intravedo nelle risorse poco chiare, poco equamente condivise e suddivise ma spero sia qualcosa di facilmente risolvibile. Il lato positivo, quindi l’opportunità, lo intravedo nell’evoluzione dell’umanità che possa rendersi conto di cogliere tutte le sfumature della vita.

La gestione economico-amministrativa per i singoli artisti e le imprese spesso rappresenta un problema ostativo. Quanto tempo, energie e risorse queste portano via al suo impegno artistico?

Sono un autore privilegiato e anche il mio lavoro di direzione è condiviso con una persona che con me ha un progetto di vita oltre che professionale (Maria Inguscio, direzione generale di Scenario Pubblico/Compagnia Zappalà Danza ndr.) e in più ho un team di persone valido, serio e appassionato. Il privilegio me lo sono guadagnato con il lavoro ed è venuto con il tempo, quindi anche se non me ne occupo direttamente conosco tutte le dinamiche che ci sono dietro a ogni singolo processo che riguarda il lavoro della compagnia e del centro. In generale penso che ci sia, soprattutto a livello nazionale, una necessità non solo di fare rete – perché di fatto già esiste – ma di farla funzionare. Mi spiego meglio: sarebbe auspicabile che i teatri e le compagnie dialogassero per proporre una distribuzione delle opere realmente in grado di far arrivare ogni spettacolo in ogni regione, in maniera capillare e equa. E sarebbe utilissimo per tutti ottimizzare i tour (quando ripartiranno) e consentire a tutti di viaggiare in maniera sostenibile, senza sprechi di denaro o di viaggi per una singola data. Spero che sarà realizzabile in futuro proprio a partire da una nuova consapevolezza generata dal contesto pandemico.

Finanziamenti pubblici. Ritiene che la sua regione – la Sicilia – sia adeguatamente sostenuta dal Fondo Unico per lo Spettacolo?

Anche in questo caso darò una risposta da privilegiato, sono siciliano e uno dei 4 centri di produzione riconosciuti dal Fondo Unico per lo Spettacolo è diretto da me, in Sicilia, a Catania. Mi rende orgoglioso del lavoro svolto finora ma di base io sono una persona altruista. Credo sia necessario un centro in ogni regione, sono a favore di un’equa distribuzione territoriale delle risorse, basate sulla grandezza, sul numero della popolazione e su altri dati socio-demografici. Per ciò che riguarda strettamente la Sicilia posso dire che si tratta di un sostegno discreto ma si può fare ancora molto, insistere sui territori dislocati dai grandi centri urbani. Sono a conoscenza del fatto che c’è un nuovo piano approvato di restauro per 100 teatri sul territorio siciliano. È una bella notizia ma spero che a questi teatri venga data la linfa per ospitare le compagnie, per produrle se necessario. Restaurare i teatri è un primo passo, poi andranno riempiti di contenuti.

Il sistema dello spettacolo dal vivo, e più ancora il settore della danza, sembrano molto poco conosciuti dal pubblico, dai media e soprattutto dai decisori politici. Cosa pensa si potrebbe fare al riguardo?

Si potrebbe fare moltissimo. Negli ultimi anni però – anche a causa dello stop forzato – si è concentrata una nuova attenzione nei confronti del settore dell’arte in generale e, più specificamente, dell’arte dal vivo. La danza è un’arte magnificamente semplice ma non va ridotta a puro intrattenimento, o peggio, un intermezzo tra una cosa e un’altra. Questo purtroppo ancora accade, viene ancora vista come un’arte complementare alle altre. Spesso sono i registi stessi – anche nell’opera lirica – la considerano complementare. Ma la danza può essere complementare sì ma anche autonoma e emancipata. Qualche paese in Europa è un po’ più avanti di noi ma non posso dire che qui non ci si stia lavorando. Ci vorrà del tempo, come per tutti i processi evolutivi o di affermazioni di valori e pensieri.

Parliamo di formazione. Secondo lei il sistema formativo della danza è adeguato alle esigenze attuali?

In Italia c’è un sistema non riconosciuto ancora del tutto, quello della formazione privata, che sa essere molto valido in alcuni casi. Sicuramente c’è molta frammentarietà: gli enti lirici formano ballerini classici che poi restano in quel contesto o in Italia o all’estero, poi ci sono altre scuole che formano altre figure più – mi permetta – “performative” che possono essere più duttili per le esigenze di quelle compagnie che hanno un repertorio diversificato, mutevole nel tempo. L’Accademia Nazionale è ancora solo una e, anche se trovo giusto che sia una, ritengo altrettanto giusto che ci siano delle succursali regionali per andare incontro alle necessità dei territori, per dissetare tutte le persone che vogliono formarsi professionalmente in questo ambito. Bisognerebbe fare degli sforzi maggiori per l’equalizzazione del territorio italiano intero e per dare una vera offerta di formazione sulla base dei linguaggi della contemporaneità che sono tanti e diversificati.

Se improvvisamente avesse il potere di risolvere i problemi del mondo della danza che cosa farebbe per prima cosa?

Domanda molto difficile. Io penserei al territorio, non perché sono nazionalista, ma perché mi piacerebbe attivare un cantiere aperto tra tutti gli operatori e le teste pensanti – creative e produttive – per creare un dialogo orizzontale.

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