Dal silent cinema arriviamo al cinema sonoro.

Una cosa è certa. Con la sincronizzazione dei movimenti sulle musiche riacquista importanza l’autorialità delle coreografie, che si era persa nei primi anni del nuovo secolo. L’avvento del sonoro arricchisce e al contempo complica ulteriormente quindi il legame tra danza e cinema.

Scorrendo tra gli estratti di storia del cinema e del video che raccoglie Youtube, uno dei primissimi esempi di sincronizzazione del sonoro su immagini di danza, è il lavoro di Doris Humphrey, Air for the G String (1934) nel quale viene adoperata con sapienza la camera fissa e una pluralità dei piani di visione della performance, dal campo medio ai piani ravvicinati e ai primi piani di tutte le danzatrici. Una regia simile la troviamo a partire dagli anni ’50, in un contesto non più esclusivamente cinematografico: nelle prime riprese televisive integrali di balletti classici e neoclassici, come Giselle, Sleeping Beauty, A Midsummer Night’s Dream, lavori concepiti per la diffusione presso un più vasto pubblico dei repertori delle compagnie. Pensiamo ad esempio a Paul Czinner che dagli anni ’60 mette a punto una serie di lavori di ripresa del balletto (Romeo and Juliet, Ondine, Swan Lake) e dell’opera lirica attraverso l’impiego di una tecnica di regia a più camere che sarà molto importante per i successivi sviluppi delle ripresa televisiva di spettacoli teatrali sia in diretta che in differita. Western Symphony di Thompson Rowe, con le coreografie di Balanchine, Dancer’s World (1957), di Nathan Kroll, coreografato da Martha Graham Auditorium di Cuny e il Lago dei cigni di T. Samoznaeva e G. Rappaport per la Lenfilm, caratterizzati da un impiego parsimonioso del linguaggio e dei trucchi cinematografici, la maggior parte di queste opere sono girate con mezzi televisivi e destinate al pubblico del piccolo schermo il che, rispetto alla grande sala di proiezione richiede un utilizzo diverso, a livello comunicativo, dell’immagine. Ciò non toglie la possibilità che vengano realizzati filmati di ampie vedute e in un certo senso più sperimentali, dal punto di vista dell’impiego del ricco linguaggio cinematografico, come Giselle di Hugo Niebeling, del 1969, con Carla Fracci e Erik Bruhn, nei ruoli dei protagonisti. Qui la narrazione è portata avanti da un numero variegato di piani e tagli di inquadratura ben mescolati attraverso il montaggio, e lo spazio scenico risulta notevolmente ingrandito attraverso insert naturalistici, immagini della natura e interi ambienti ricostruiti su set.
Rimanendo sul tema saltiamo agli anni ’90, al lavoro svolto da Jiří Kylián in collaborazione con registi come Hans Hulscher: la camera fissa attraverso totali e piani ravvicinati valorizza gli effetti illusionistici della scena, composta come un vero e proprio set, ed evidenzia nel montaggio i passaggi coreografici mimicamente e drammaturgicamente più interessanti, come dimostrano alcune scene della serie di coreografie racchiuse in Black and White (1997).

Ma torniamo un attimo indietro, agli anni ’30, per parlare di un genere che farà scuola a molto cinema, e non, di danza dei decenni successivi: i cosiddetti “film – rivista” e colui che li ha portati alla notorietà, Busby Berkeley.
Segnato dall’esperienza in Accademia Militare, egli trasporta il ricordo delle parate marziali nelle sue coreografie, dando vita a vere e proprie scenografie umane, attraverso l’impiego di grandi masse di danzatrici disposte in disegni geometrici. La mdp fa da protagonista assoluta dello spettacolo; essa infatti taglia, inquadra, si muove in maniera spregiudicata e danza insieme alle ballerine, scongiurando una fruizione simil teatrale della performance.
L’erede più diretto in questo senso è il musical, nel quale, e più che in ogni altro, la danza diventa un vero e proprio modus vivendi estremamente positivo e gioioso. Il musical fiorisce quindi tra la seconda metà degli anni ’30 e la fine degli anni ’50 e passa dai teatri di Broadway a Hollywood attraverso il lavoro coreografico dello stesso Berkeley, di Balanchine (che viene dal balletto classico), di Fred Astaire e Gene Kelly. Questi ultimi due, in particolare, suggeriscono tipi differenti di regia delle sequenze danzate, che faranno scuola. Il primo sceglie di norma il campo medio e la ripresa dei danzatori con camera fissa e inquadratura a figura intera e pochi dettagli, generalmente sui piedi, per valorizzare i passi veloci e cadenzati del tip tap. Il momento di danza risulta dunque astratto dal contesto narrativo del film e diviene una sorta di discorso a parte. Il secondo, al contrario, impiega una mdp estremamente mobile: essa danza insieme al performer, seguendone fedelmente i passi. A livello visivo questo garantisce costanza del rapporto identificativo tra spettatore e personaggio, ma provoca disorientamento ed effetti di straniamento stravolgendo completamente l’orientamento della scena e fornendo tagli azzardati del corpo del danzatore.

In Italia un bell’esempio di applicazione degli stilemi del musical hollywoodiano è Carosello napoletano (1954), di Ettore Giannini, purtroppo non seguito da nessun altro regista connazionale nell’esperimento. Il film conta un cast di eccezione, i migliori attori della commedia dell’epoca, e la partecipazione del Balletto del Marqui de Cuevas, tra sciantose, punte, maschere e gran finali.
Fatta eccezione per quest’ultimo e altri pochi esempi, il musical si sviluppa soprattutto attraverso movenze jazz, tacchi e lustrini.
Intorno agli anni ’60 il cinema di musical rallenta la sua corsa per proporsi in episodi più radi, spesso preferendo al ballo, la musica. Non manca comunque esempio più recente come Moulin Rouge!, di Baz Luhrmann (2001) o Chicago di Rob Marshall (2002).


Molti altri generi cinematografici hanno dialogato e si sono sviluppati attraverso un solido legame con la danza. Nel prossimo appuntamento il viaggio proseguirà attraverso il cinema d’animazione, il video e le tecnologie e come questi hanno reso poroso il dialogo tra scena e materia riprodotta.

Iscriviti alla Newsletter