Una simbiosi di rara sensibilità fra tecnica coreografica perfetta e vibrante plasticità d’espressione, fra mirate soluzioni drammaturgiche giocate sugli innesti di trama e psicoanalisi più un collage sonoro ritagliato ad arte mettendo assieme alcune delle più belle pagine sinfoniche e da camera di Antonín Dvořák, a partire dalla neanche troppo conosciuta Ouverture op. 93.
È l’Otello di Fabrizio Monteverde – coreografo romano fra i migliori della scena contemporanea – creato nel 1994 per il Balletto di Toscana, riconfezionato nel 2009 per il Balletto di Roma e in quest’ultima versione, dopo il successo di centinaia di repliche, rappresentato per la prima volta a Napoli fra applausi assai vivi al Teatro di Corte di Palazzo Reale, nell’ambito della stagione targata San Carlo. In scena, dodici elementi più due solisti (Alessandra Veronetti per Emilia e Carlo De Martino per Cassio) della Compagnia di Balletto della Fondazione – tutti bravissimi – accanto a due stelle ospiti entrambi dell’entourage di “Amici”, ossia il cubano Josè Perez per Otello e Anbeta Toromani per Desdemona più, al loro fianco nei panni di Jago, il napoletano di formazione sancarliana Alessandro Macario, primo ballerino ospite del Lirico.
In prima linea sul fronte degli esiti d’impatto teatrale, senz’altro si annovera il nudo maschile integrale di spalle o frontale dall’effetto “vedo non-vedo” per un ruolo del titolo giocato sulla selvatica fisicità muscolare, quindi lo stile fetish di atteggiamenti e costumi (firmati da Santi Rinciari) ideati per saldare in cerchio i riferimenti dell’alta fonte shakespeariana e le atmosfere malate di un’umanità più moderna, innervata da latenti pulsioni di sempre che, tra passione (anche omosessuale), possesso e violenza, evocano immagini e sentimenti alla “Querelle de Brest”, ultima pellicola per il grande schermo del regista tedesco Rainer Werner Fassbinder.
Dunque un’indagine in danza, nel virtuoso quanto originale mixage di classica e contemporanea, sul fluire interiore di sentimenti cangianti. Di qui la scelta, per lo sfondo (scena unica dello stesso Monteverde), non della prevista Venezia o Cipro, bensì di una banchina di un qualunque, moderno porto di mare, simbolo di passione ingovernabile, quale zona franca in cui tutto può accadere, in cui svelare liberamente i propri istinti. Ed ecco che il dramma della gelosia per antonomasia, secondo quanto scolpito dal coreografo e da tutti gli interpreti in campo, prende altra forma e altra forza attraversando l’eterna contrapposizione fra il maschile e il femminile, tra il bene e il male, tra la brama di potere e la gelosia del possesso, in un mutevole alternarsi di sentimenti reso esplicito dall’intercambiabilità degli stessi ruoli. Ebbene, entro tale complessità dei rapporti interni al triangolo Otello-Desdemona-Cassio, compromessi dai continui intrighi del “motore” Jago, l’Otello del prestante Josè Perez non si limita a sfoderare fisicità, muscoli e nudo integrale o parziale, ma traduce a meraviglia idea del potere e istinti fortemente terreni. La Desdemona della rigorosissima Anbeta Toromani, quindi, rappresenta l’amore assoluto, finanche sordo e ostinato mentre, Alessandro Macario, fra tecnica elegante e volto da bravo ragazzo, restituisce uno dei profili forse più autentici dell’ingannatore Jago.
Un ultimo cenno merita la geniale scelta del percorso sonoro: Danze slave op. 46 e op. 72, Polka dalla Suite céca op. 39, le gemme cameristiche dal Trio in fa minore con pianoforte op. 65 e dal Quartetto in fa maggiore per archi “Americano” accanto a una rarità sinfonica “La calma del bosco” op. 68 per violoncello e orchestra, il più noto Karneval op. 92. Infine, la partitura “chiave” giocata in apertura: la bellissima Ouverture Othello op. 93, concepita dall’autore Dvořák quale simbolo dell’uomo che distrugge la vita dissacrando l’amore con il possesso.
Paola De Simone