Napoli. Al Teatro San Ferdinando il 10 e 11 Febbraio Emanuel Gat, acclamato coreografo israeliano, ha bussato alla porta di casa della drammaturgia napoletana. In scena Milena e Michael (2017), e l’ultimo riallestimento della celebre SACRE (2015).

Due corpi, un uomo e una donna, a passo svelto irrompono sul palcoscenico, diviso in due. Uno spazio bianco e pieno, uno spazio nero e vuoto, uno spazio del visibile e uno dell’invisibile.

Milena e Michael si dedicano, alternandosi o incontrandosi, alla costruzione di forme che appaiono scomposte e incomplete, destrutturate nello spazio. I danzatori si sovrappongono, si allontanano, si allineano e raramente si guardano, in una relazione che sembra tenere in conto l’altro al confine. Il ritmo incalza: i movimenti si fanno più veloci, le forme si intrecciano, le distanze si accorciano. Milena riempie lo spazio vuoto di Michael. La ricerca di un unisono inizia ad essere visibile, apparendo casuale ma in estensione. Presenza, relazione, asimmetria, reazione, complementarietà: dualismo. È questo forse il tema che Gat vuole offrire? L’esistenza di due realtà corporee, di due linguaggi, di due spazi. Michael riempie lo spazio vuoto di Milena. Attaccati, sempre più attaccati, in un corpo a corpo i danzatori si trasformano in lottatori forti e gentili. Un susseguirsi di interazioni repentine e potenti che terminano di colpo, un confronto, finito alla pari, in cui i protagonisti si allontano velocemente l’uno dall’altro.

Sacre è un rifacimento di un pezzo di storia della danza: La Sagra della primavera. Il desiderio di reinterpretare un’opera del passato si fonde nell’opera di Gat con il vorticoso linguaggio della salsa cubana.

Cinque danzatori, tre donne e due uomini, tra cui il coreografo stesso, danzano su di un tappeto posto al centro del palco, unico spazio illuminato da una calda luce rossa. In questo perimetro si esegue una danza, la salsa, per due coppie e una danzatrice, in un gioco di scambi nel quale una delle tre donne esegue la sequenza senza partner. Seguendo l’incalzare delle note di Stravinski, i danzatori si spostano velocemente da una parte all’altra del palcoscenico; i loro corpi posseduti dalla danza: vorticosa, poi lineare, veloce, forte. Si danza in coppia, in solitudine; danzano le donne, danzano gli uomini, danzano tutti. La coreografia si spalma nello spazio, prende e perde ritmi; gli interpreti, caratterizzati da un vocabolario di forme e movimenti che sembrano costruiti ad personam, sono in azione perenne. In Sacre Emanuel Gat crea una dimensione in cui l’agire è protagonista assoluto. Lo spettatore è chiamato ad osservare schegge di movimento che si irradiano dai corpi dei danzatori, a rincorrere con lo sguardo.

La trama dell’opera originale sembra essere dimenticata ma è un piacevole oblio quello a cui si abbandona il coreografo; tale dimenticanza potrebbe risultare più difficile per lo spettatore, ma non meno dolce. L’invito, in  Sacre, è abbandonare la volontà di individuare dettagli per lasciarsi rapire dagli eventi e dall’imprevedibilità dell’imminente.

 

Giada Ruoppo

 

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