NAPOLI – Debutta al Teatro Politeama, nell’ambito del Campania Teatro Festival, sabato 25 settembre con replica 26 settembre ore 21 “Paradiso” regia, coreografia e spazio, è scritto nelle note, di Virgilio Sieni. Il Paradiso di Dante ricompone il corpo secondo una lontananza che è propria dell’aura, un luogo definito dal movimento, da ciò che è mutevole. Un viaggio che si conclude nello spazio senza tempo della felicità.

Il cammino di Dante non è assimilabile a niente, pura invenzione di una lingua inappropriabile che si trasforma in molecole di dialetto e oralità, gesto sospeso e luccicanze improvvise.

Dante non è un flâneur, viaggiatore della notte alla ricerca di se stesso nelle pieghe infernali della città; né un wanderer, viandante immerso negli abissi della malinconia e letteralmente risucchiato dai paesaggi emozionali; né un passeggiatore scanzonato, come ci indica divinamente Petrarca, cioè un camminatore che tiene lontani i pensieri invadenti e si sospende nell’ “errabondare tra le valli”.

Lo spettacolo non fa cenno alla Divina Commedia

È un cammino dall’umano al divino, dal tempo all’eterno. Lo spettacolo è la costruzione di un giardino e non riporta la parola della Divina Commedia, non cerca di tradurre il testo in movimento ma si pone sulla soglia di una sospensione, cerca di raccogliere la tenuità del contatto e il gesto primordiale, liberatorio e vertiginoso dell’amore. Danza dialettale che si forma per vicinanze e tattilità.

La prima parte presenta la costruzione di un giardino fisico di gesti. Quintetto fisico che traccia il suolo di passi intesi come piantumazioni di un giardino immaginario. La coreografia è costruita per endecasillabi di movimenti dove i versi della danza ritrovano il risuonare della rima da una terzina all’altra.

L’importanza delle piante

Questo continuo manipolare, accarezzare e pressare lo spazio invisibile intorno ai corpi edifica un continuum di terzine sillabiche del gesto: una maniera umile per porsi nei confronti della loro magnificenza geometrica, matematica e cosmica. Allo stesso tempo il gesto scaturisce da una ricerca sullo spazio tattile e sull’aura della persona. La coreografia immagina e materializza corpi fuori dal corpo, ripercorrendo le nodature e le striature muscolari, facendo emergere un contesto dove le piante riflettono la loro presenza in emanazione luminosa. I danzatori creano un gioco di vicinanze e di prossimità, stabilendo una nuova forma di contatto, dove il tocco non tange la pelle ma lo spazio auratico dei corpi.

Nella seconda parte tutto avviene cercando nel respiro delle piante la misura per costruire un giardino quale traccia e memoria dei gesti che lo hanno appena attraversato. La vicinanza con la natura ci immerge in un limite che sembra un gioco ritrovato: sono loro, le piante, a scegliere e a determinare i gesti, le misure, le ombreggiature, le sparizioni. È il loro modo di accarezzarci che smuove i corpi secondo incontri e traiettorie che richiedono sempre solidarietà; la loro esistenza accoglie e fa esistere i nostri movimenti.

La coreografia è costruita portando, sollevando e depositando le piante nello spazio. Questo passeggiare insieme a loro, sentirne chiaramente il peso e il volume, ci ha istruito sul senso della lentezza e dello scorrimento: canali gestuali e “amorosi”. In questo contesto di relazione e convivenza, la danza assume l’aspetto di un respiro che organicamente ritrova un contatto diretto con la tenuità delle foglie e il loro riferirsi costantemente alla luce, accudendola. Le piante, la cosa alta, restituiscono il vero senso della danza, la lingua penultima: dialettale e popolare, in grado di mettere in dialogo le persone secondo declinazioni astratte, simboliche, inventate e immediatamente inscritte nella memoria.

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