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Gabriella Stazio racconta la sua storia del corpo: “Il luogo del paradosso”

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photo © Pasquale Ottaiano

Gabriella Stazio presenterà in prima assoluta durante la rassegna Stabiledanza curata da Luca De Fusco per il Teatro Stabile di Napoli, il suo ultimo lavoro, Il luogo del paradosso. In questa intervista ci racconta la storia del corpo e il corpo nella storia del paradosso.

In questo lavoro ti ispiri a Jacque Le Goff, noto studioso di storia medievale, che nel suo libro “Il corpo nel medioevo” scrisse che è nel medioevo che si trova la matrice del corpo presente, in quale medioevo, dunque, nasce la tua concezione di corpo? 

Il mio è stato un percorso lungo, soprattutto se penso all’inizio, alle mie prime coreografie che credo risalgano agli anni Ottanta. Nel corso degli anni ho prodotto un numero cospicuo di lavori, ma la matrice che è presente in Il luogo del paradosso è stata sempre presente nella mia ricerca coreografica. Ho sempre cercato di trovare e ricreare in scena quel momento della creazione istantanea. Non mi sono mai piaciute le coreografie prefabbricate: materiali di movimento pronti per essere assemblati insieme, quella per me non è coreografia.

E’ sempre stato così per te?

Si, è sempre stato così. Ora questa ricerca si è spinta molto in avanti (o almeno io me lo auguro) e devo dire che la scelta di lavorare questa volta con danzatori molto adulti – nel senso di un’età che si pensa non sia più da palcoscenico – invece è stata l’intuizione più giusta. Anzitutto, perché in questo lavoro il corpo viene osservato dal punto di vista del trentenne fino a quello della persona di ottant’anni. In Il luogo del paradosso, il corpo è un corpo  che viaggia nel tempo e in questo viaggio parla di sé della sua storia, di quello che gli succede. Il corpo non solo dal punto di vista scenico, quindi come corpo del danzatore o della danzatrice, ma anche da un punto di vista personale, biografico, il processo creativo ha mirato anche a considerare come il corpo di un individuo si trasformi negli anni e come il tempo dia significato a quel corpo. Poi naturalmente, al tempo stesso, lavorare con danzatori che sono tutti coreografi che sono tutti allo stesso tempo direttori di compagnia o lo sono stati, vuol dire avere in scena degli artisti completi che riescono a calibrare dallo sguardo al respiro al semplice movimento di una mano. Questo è stato davvero un aspetto molto interessante. Stavo già pensando da molto tempo di lavorare con dei corpi non giovani, ma in Il luogo del paradosso mi è sembrato indispensabile. Tant’è che  già l’audizione che feci per questa produzione era per danzatori over 50. In questo lavoro ci sono danzatori che vanno dai 27/28 anni agli 80 anni.

La danzatrice più giovane mi pare sia Angela Caputo, giusto? Si è formata con te?

Si, la danzatrice più giovane è Angela Caputo che ha 27 anni. Però lei non si è formata con me, ha semplicemente risposto alla call dell’audizione. E’ successo che i giovani danzatori/danzatrici che hanno lavorato con me negli ultimi anni avevano altri impegni negli stessi periodi, o hanno preferito non essere presenti in questo lavoro. Per cui ho lanciato questa call e ho scoperto Angela con cui ho subito riscontrato una sintonia.

Tra i danzatori ci sono due napoletani?

Si, Sonia Di Gennaro che lavora con me da 30/40 anni e Claudio Malangone. Durante le prove abbiamo ricordato di quando Claudio Malangone e Michele Simonetti vinsero (parliamo di un pochino di anni fa) la borsa di studio al CID dove insegnavo io, Roberta, e Joseph. La prima audizione che loro fecero fu con me, e io li presi tutti e due. La ricostruzione di queste memorie, di questi vissuti comuni, di questi contatti tra i corpi nel corso degli anni, è stato un aspetto importante del processo creativo. Roberta Esamilla Garrison è stata mia maestra, così come anche Joseph Fontano. Quindi mi piace pensare che ognuno di loro faccia parte della mia storia del corpo, così come io faccio parte della loro storia del corpo.

Tu hai fondato Movimento Danza nel 1979, quindi hai vissuto un panorama della danza contemporanea a Napoli di cui, purtroppo, spesso e volentieri si perde la memoria. Che cosa è cambiato del/nel corpo in questo arco di tempo che va dalla fine degli anni ’70 ad oggi? 

Movimento Danza nasce da un percorso molto particolare, ovvero dalla Scuola Popolare di Musica di Montesanto. La Scuola Popolare di Musica di Montesanto a sua volta nacque dalla Mensa dei Bambini Proletari. Ti racconto dunque di un momento storico di questa città, di un periodo molto molto intenso dal punto di vista culturale. Quando nacque la Mensa dei Bambini Proletari nel quartiere di Montesanto, la maggior parte dei bambini dei quartieri di Napoli morivano di fame, e non parliamo di cose successe nel Settecento, o ecco nel Medioevo (ridiamo), parliamo di pochi anni fa. Fu dunque aperta questa Mensa dei Bambini Proletari, dove i bambini dei quartieri andavano a mangiare, e poi restavano per fare i compiti, etc. Da questa esperienza, che iniziò negli anni ’70, con Geppino Fiorenza che mise insieme il cattolicesimo e il socialismo di un certo tipo, nacque la Scuola Popolare di Musica di Montesanto dove con 1000 lire al mese, era possibile fare lezione con nomi più illustri della scena culturale Napoletana, come per esempio prendere lezioni di violino dal secondo violino del Teatro di San Carlo. Io mi proposi per la danza contemporanea. La Scuola Popolare di Musica di Montesanto, in pochi mesi, arrivò ad ospitare dai  500 ai 1000 allievi. Era diventata una cosa ingestibile, e questo corso di danza contemporanea che era nato come scommessa, fece un numero enorme, 400/500 persone, tutti adulti e la maggior parte più grandi di me. Io ho insegnato a casalinghe, medici, commercianti, professori, maestri. Persone della mia età c’erano pochissime. Era un modo per riappropiarsi del corpo, di riprendersi e riscattare il corpo. Per cui questa matrice, in e per me, nella danza contemporanea non è mai potuta morire. È sempre rimasta intatta la visione del corpo.

Vi è anche una forte base socio-politica, in questo voler dare al corpo il suo valore?

Si, vi è la volontà soprattutto di dare uno spazio al corpo nella cultura occidentale. Perché nella cultura occidentale, il corpo non ha uno spazio. È sempre un corpo civilizzato, un corpo represso che deve rispondere a ruoli, regole, categorie e classificazioni di classe, di genere ed età (è uomo, donna, bambino, gay, anziano). Quello che io vedo, e quello che è venuto fuori da questa coreografia, è che nella danza contemporanea, post-contemporanea – intendendo tutte le nuove tecniche che si stanno sviluppando nell’attualità – vi è una direzione performativa nei termini di rendimento della performance, un virtuosismo che deve essere sempre più complesso: la gamba sempre più in alto, la combinazione al pavimento sempre più complicata, il salto sempre più acrobatico. E questo mi fa chiedere “dove ci porterà questo più?”. Lavorare, invece, con dei corpi di danzatori di 50, 60 e 80 anni, ti fa cambiare completamente la prospettiva, il senso e il significato di cosa il virtuosismo sia o possa essere. Il virtuosismo diventa muovere una mano, il modo in cui lo fai, il modo in cui sei presente in scena.

Prendiamo per esempio la danza degli anni ’70/’80 ad oggi, che cosa si è perso in questa metamorfosi dei corpi? Sarà che danzatori sempre più bravi sono meno consapevoli delle radici sociali su cui verte la danza?

Io non penso che stiamo perdendo qualcosa perché la ricerca si spinge verso tante direzioni. Può esserci in un dato momento una ricerca verso una direzione e in altro momento storico vi è la spinta vero un’altra direzione. Quindi non avverto alcun senso di perdita. Non è neanche un cullarsi nei bei tempi che furono. Penso che la danza contemporanea proprio perché è ricerca e sperimentazione debba trovare più fronti su cui agire ed elaborare. Nel senso che se guardiamo gli anni ‘70/’80 c’erano le sperimentazioni di Steve Paxton ma c’era anche Twyla Tharp che era altro, come c’era Lucinda Childs che era altro ancora. Ora quello che io credo che la danza contemporanea debba continuare a fare, è proprio questo: spingere su più ambiti di ricerca nello stesso momento, e non andare verso un’unica direzione. La danza contemporanea è comunicazione tra le ricerche. Nel momento in cui queste ricerche non comunicano più e non collaborano più in maniera collettiva, si torna ad un parametro “classico”. Classico non nei termini di forma ma di atteggiamento che predilige un unico modo di vedere il corpo. Il balletto era l’unico modo di vedere il corpo occidentale. Poi con la nascita della danza moderna e contemporanea abbiamo avuto tanti modi diversi di vedere il corpo nella cultura occidentale. La cultura occidentale ha poi accolto altri modi di vedere il corpo dalle culture orientali così come la coreografia giapponese, o se pensiamo oggi a tutta la nuova coreografia Israeliena, a quella del medio-oriente (tutto quello che nasce dall’India, dalla Malesia o dall’Africa). Sono i modi di vedere il corpo, prima di vedere la danza. Dunque, il modo di vedere il corpo, è il modo della cultura di quel corpo. La danza attraverso la ricerca dovrebbe attingere a queste visioni. Oggi soprattutto con le possibilità offerte dai nuovi mezzi di comunicazione, che sono in grado di apportare un plusvalore alla ricerca. Nel senso che trent’anni fa se io volevo vedere un lavoro di X, mi dovevo mettere in treno, fare lo zaino e andarlo a vedere lì dove veniva messo in scena. Oggi, io posso conoscere tutto quello che c’è nel mondo, o buona parte di quello che c’è, seduto a casa mia. Questa è una cosa importantissima, una cosa di cui non si comprende fino in fondo il valore, ma può anche contrariamente diventare un overdose stagnante, un letargo, se quel plusvalore non lo si applica nel lavoro di ricerca pratico per nuove elaborazioni.

Come dici però nella presentazione dello spettacolo, c’è qualcosa che il corpo non dice, cos’è che ritieni non venga detto e che metti in risalto in questo lavoro?

Io me lo posso augurare, perché poi a questa domanda potrà rispondere solo il pubblico, certo non posso dirlo io. La mia idea è stata quella di lavorare su quello che noi nella coreografia chiamiamo “azioni principali”: ogni artista, ogni danzatore lavora su un certo numero di azioni principali in cui esprime il soggettivo modo di sentire e vedere il proprio corpo. Abbiamo lavorato su azioni come: il corpo represso, il corpo liberato, il corpo nascosto, il corpo civilizzato, il rifiuto del corpo, etc. E ognuno ha sviluppato la propria idea e la propria identità di corpo, cercando di uscire fuori dal concetto di danza contemporanea, danza occidentale, danza da spettacolo. Piuttosto, il lavoro mira a dare uno spazio, prima che alla danza, al corpo. La struttura della coreografia ha una percentuale di decisionalità da parte di ogni danzatore molto elevata, nel senso che ogni danzatore ha sviluppato 6/7/8 di queste azioni principali che compongono la struttura della coreografia, e prima di entrare in scena, loro decideranno da soli (indipendentemente da me) quali azioni attuare e quando attuarle (quindi anche la successione).

La musica è stata composta contemporaneamente o separatamente?

Separatamente, come faccio sempre, perché io provo sempre senza musica. Le musiche sono tutte originali, composte da Francesco Giangrande che poi le elaborerà dal vivo.

Quindi l’organizzazione dell’azione coreografica si rifletterà anche nel lavoro del musicista?

Si, possiamo dire che lo stesso concetto della coreografia verrà sviluppato anche nella composizione musicale, per cui non ci sarà una “colonna sonora” – quindi i brani che si susseguono l’uno all’altro in maniera prefissata – ma il musicista nel momento potrà decidere con quale brano iniziare, con quale finire, quale suonare in un preciso momento. Questo approccio dà una grande libertà al compositore che può creare istantaneamente la musica mentre il pubblico vede lo spettacolo, e per me è diventato per me molto importante: offrire al pubblico l’immediatezza della creazione non logorata dalla ripetizione sempre uguale delle prove e degli spettacoli.

Perché in due episodi? È la prima volta che sviluppi un lavoro in due episodi?

Si, è la prima volta che creo un lavoro in due episodi. All’inizio avevo immaginato 4 episodi, poi parlando anche con il Teatro Mercadante – che è coproduttore di questo lavoro, e per questo ringrazio Luca De Fusco che mi ha dato questa opportunità – abbiamo deciso di fare due episodi: un debutto una replica, un debutto una replica. Questi due debutti avranno delle strutture molto differenti, ma anche le repliche non saranno mai come il debutto, quindi saranno 4 momenti diversi perché praticamente è impossibile ripeterli nello stesso schema.

Soprattutto per questa istantaneità della creazione?

Esatto. Quindi il primo e il secondo giorno lavoreremo su dei materiali coreografici anche se la struttura è sempre quella, il terzo e il quarto giorno sono altri materiali coreografici ma rimane invariato il concetto della coreografia. Il concetto è unico. Noi lavoriamo su azioni principali e azioni secondarie. L’azione principale è unica per ogni danzatore, ogni danzatore ha almeno 3 azioni principali per ogni serata. Queste azioni elaborate insieme durante il processo creativo verranno scelte, indipendentemente da me, dai danzatori prima di entrare in scena. La coreografia si compone di “cellule coreografiche”, come io uso chiamarle. L’azione principale [soggettiva] è il nucleo della cellula. In questo nucleo s’inserisco le azioni secondarie che sono invece uguali per tutti. Queste azioni secondarie completano la cellula coreografica perché sono le sinapsi che creano la rete con le altre cellule. Ogni danzatore mette in scena 3 cellule con le azioni principali e secondarie. La seconda sera queste tre cellule possono essere invertite nella successione. La terza sera, quindi il debutto del secondo episodio, si cambiano le cellule.

Quindi i danzatori non potranno utilizzare le stesse?

Esatto, dovranno usare le nuove. E quindi la visione cambierà, mentre la struttura non cambia. Anche se il pubblicò vedrà gli stessi personaggi. Tre uomini e tre donne di diverse fasce di età. In questa struttura definita, in queste azioni definite, vi è la possibilità di far sì che siano loro nel momento a decidere la combinazione di tutto.

Le luci sono importanti per te nella creazione dell’ambiente coreografico?

Si, per me le luci sono sempre state molto importanti e mi sono quasi sempre dedicata io a fare anche il disegno luci. In questo spettacolo ritorna come light designer Beppe Cino che ha iniziato a lavorare con Movimento Danza quando aveva 14-15 anni. Poi è entrato come tecnico al Teatro Mercadante e sta continuando la sua carriera lì. Quindi quando c’è stata l’opportunità di questa co-produzione ho detto subito di volere Beppe Cino con noi perché è un pezzo anche lui di questa storia del corpo. Una forte rete di questa coreografia sono queste relazioni artistiche impresse nei corpi, relazioni instaurate all’inizio delle carriere di molti di noi, oggi artisti più che affermati. Io sono in mezzo. Da una parte ci sono Joseph Fontano e Roberta Garrison, che insieme a Elsa Piperno e Bob Curtis hanno portato la danza contemporanea in Italia; e dall’altra vi sono le generazioni dopo di me in cui c’è gran parte della mia storia.

È molto interessante pensare questo presente performativo in cui ci sono i flash back e i flash forward di corpi che raccontano una storia conosciuta, memorie del corpo condivise, vicine e lontane. Il luogo del paradosso credo darà anche un’importante lezione di vita alle giovani generazioni, perché a volte si pensa che una carriera come quella di un danzatore possa finire a quarant’anni, invece, osservare la complessità di un gesto eseguito da un’artista maturo conduce a considerare una nuova dimensione del virtuosismo.

Si, infatti, parlando con Joseph Fontano dopo le prove lui mi ha detto “il vero virtuosismo è nello sguardo”. Nel senso che ad un certo punto quando non puoi alzare la gamba più di tanto, non puoi saltare o girare più di tanto, trovi altri canali attraverso il quale il virtuosismo possa esprimersi: in uno sguardo appunto.

Tu dai molta libertà al danzatore, dai molto valore alla creatività dell’artista con cui lavori.

Penso che solo in questo modo si possa lavorare con un atteggiamento di ricerca, viceversa parleremmo di un corpo di ballo. Non importa che si tratti di flex, punte e rotolate. Per parlare di danza contemporanea, è il concept che deve cambiare, non può cambiare solo la forma del corpo.

Sono molto d’accordo con te quando dici che questo è l’unico modo di lavorare se si vuole fare ricerca. Però è anche vero che questo non è un atteggiamento e una visione sempre condivisa. Parlando della generazione contemporanea, anche come docente, hai mai avuto difficoltà a fare entrare il danzatore nello stato e nell’atteggiamento di creatività?

Movimento Danza fa azioni per il ricambio generazionale, quindi lavora sempre con i giovani da tantissimi anni. Queste azioni di ricambio generazionale mi danno la possibilità di entrare in contatto con moltissimi giovani che io riesco a conoscere anche in altre situazioni che non sono per forza le prove. Vengono invitati alla Giornata mondiale della danza, vengono invitati per presentare le loro performance, a Residanza – La casa della nuova coreografia , a My Lesson, My Body, al Grande Slam, all’Aperilab. Per cui questo mi ha dato la possibilità di incontrare quelli con cui io ho pensato di poter lavorare a livello coreografico. C’è da dire che per me le prove non iniziano se non con dei laboratori. C’è bisogno di una fase laboratoriale prima di iniziare le prove vere e proprie. Anche perché per me ogni coreografia ha un suo ambiente, ha un suo mood, ha i suoi colori e le sue dinamiche, i suoi motivi e i suoi perché, che non possono arrivare all’improvviso, è necessario fare un lavoro di comunità. Un laboratorio sulle tematiche di base del lavoro che poi portano alla fase vera e propria della creazione coreografica. Può succedere anche di lavorare con danzatori che non si conoscono. Per esempio, Angela Caputo, che danzerà in Il luogo del paradosso, l’ho vista due volte prima di sceglierla come danzatrice in questa produzione. Però è anche vero che non ho fatto una classica audizione ma ho lavorato sui temi della coreografia e nelle modalità della coreografia. Questo dunque mi ha dato la possibilità di intravedere che lei aveva quel mood che a me serviva per Il luogo del paradosso.

Tu organizzi delle piattaforme molto importanti in cui i giovani possono mettersi alla prova, hai fondato un giornale, Campadidanza insieme a Raffaella Tramontano, e l’ultima tua iniziativa è stata La questione meridionale della danza. Che significa dunque essere una coreografa in un territorio così difficile come Napoli?

Devo dire che ho girato molto all’estero, ho avuto anche proposte di lavoro e ho pensato di trasferirmi. Però ho anche tante altre volte pensato che questo territorio ha messo in moto le mie capacità e le mie energie. Nel senso: la creatività è un problema da risolvere! L’essere umano quando ha un problema mette in moto la sua creatività. Se un problema non c’è non c’è un motivo per la creatività di entrare in gioco e questo non solo nell’arte ma anche nella ricerca scientifica, medica o nell’ingegneria e nell’architettura. A volte ho pensato che se io avessi vissuto in un territorio più semplice meno problematico la mia creatività non sarebbe emersa in questo modo. Credo di essere stata la prima in Campania, alla fine degli anni ’70/’80. Qui non c’era niente ed era necessario fare di tutto. In primis, le piattaforme di condivisione. La prima rassegna di danza contemporanea è stata organizzata da Movimento Danza e il Teatro Nuovo nel 1983-1984. Così come il primo stage di danza contemporanea, che credo sia stato dato o da Roberta Garrison o da Joseph Fontano ed Elsa Piperno nel 1981. Tutto quello che circola oggi non esisteva. Il fatto che non esistesse ancora nulla paradossalmente è stato un incentivo. Io avevo 20 anni e non me ne rendevo neanche conto. Ero andata a studiare fuori Italia e a Roma con Fontano e Garrison, e quindi tutto quello che vedevo fuori pensavo fosse bellissimo e normale produrlo anche a Napoli. Le conferenze-spettacolo, le installazioni, la prima perfomance urbana l’abbiamo allestita in Villa Comunuale a Napoli nel 1982. È ovvio che c’è una differenza tra creare una coreografia e creare una piattaforma, ma sempre un atto creativo è. Il modo di pensare che io ho quando coreografo è lo stesso di quando faccio altro. Il metodo per me non cambia. O il giornale, o le prove di Il luogo del paradosso, o organizzare una rassegna, o il bando S’illumina della SIAE che abbiamo vinto lo scorso anno. Il mio metodo è sempre lo stesso. E questo mi dà la possibilità di non annoiarmi… che è un rischio (ride).

Pensi che si creerà la comunità e il network per arginare la questione meridionale della danza molto seguita anche da persone che non vivono a Napoli?

Io lo spero e ci continuo a lavorare. Abbiamo avuto un inizio buono ma mi è sembrato che poi la cosa sia un po’ scemata nell’interesse degli interlocutori. Questa questione può essere affrontata solo se i protagonisti della scena meridionale si assumono la prioria quota di partecipazione e condivisione. Si deve essere veramente convinti per generare un cambiamento, e se il cambiamento non origina prima dall’interno non è possibile generare alcuna evoluzione. Probabilmente, ognuno è stato risucchiato dalle proprie problematiche personali di artista o di gruppo di artisti o di compagnia o di associazione. Il quadro politico generale, di politica-culturale non aiuta in questo momento perché non ci sono ben chiari gli interlocutori né a livello regionale né a livello nazionale. Per sollevare la questione meridionale della danza è necessario un interlocutore, se questo non c’è può diventare un esercizio sterile, mentale e statistico. Io posso dire che anche in altri contesti – come l’assemblea di C.R.E.S.C.O. dove mi hanno chiesto di parlarne – ho lasciato ed inviato tutta la documentazione sulla questione meridionale della danza. Oppure nelle riunioni MED dell’Agis questo argomento ritorna come punto d’interesse. Ma ci vorrebbe da parte degli under35, e non solo, una volontà di lavoro sulla questione meridionale della danza, non un’attesa che qualcosa cambi o che qualcuno faccia qualcosa. Si deve essere protagonisti del cambiamento o non accadrà mai nulla. Movimento Danza può organizzare altri incontri, aggiornare i dati al 2018/2019 ma poi ci deve essere un’assunzione di responsabilità per questa piattaforma. Ci vuole il tempo fisico e mentale, gli incontri per essere in accordo e disaccordo sulle operazioni da fare. D’altronde se questa questione meridionale della danza fosse messa all’attenzione forse avremmo tutti più tempo di fare gli artisti.

Il luogo del paradosso

Ridotto delTeatro Mercadante

13-14 marzo Episodio 1

15-16 marzo Episodio 2

ideazione e coreografie: Gabriella Stazio, con l’apporto creativo degli artisti in scena

nella parte di se stessi: Roberta Escamilla Garrison, Joseph Fontano, Claudio Malangone, Sonia Di Gennaro, Michele Simonetti, Angela Caputo

musiche originali dal vivo e Sound Design: Francesco Giangrande

disegno luci: Peppe Cino

produzione: Movimento Danza, Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale

Stabiledanza Card: 3 spettacoli a 30€

Letizia Gioia Monda

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