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Danza contemporanea made in Naples, quante occasioni sprecate!

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Se c’è qualcosa che nel panorama artistico napoletano non manca questa è la danza contemporanea e per lo più quella che solitamente viene definita danza d’autore. Ospitata in diversi teatri sparsi sul territorio, la danza contemporanea made in Naples risente di un autolesionismo dilagante. Molti lavori ancora allo stato embrionale e senza una fattezza matura arrivano in scena e confondono le idee su cosa sia una fatica coreografica, un’ispirazione, un talento e finiscono per fare del male ad un’intera categoria. La voglia di stupire e di scioccare prende troppo spesso il sopravvento sull’atto creativo ragionato e studiato con la finalità dell’essere portato sul palcoscenico. E allora ecco che si assiste a lavori coreografici che non sanno di nulla, non hanno sapore, non danno emozione, non funzionano, figuriamoci poi se sono in grado di scioccare o stupire tra nudi inflazionati e tentativi di messaggi profondi. Il pubblico, soprattutto quello non tecnico, finisce per associare la parte con il tutto e col pensare che la danza contemporanea sia la dittatura del niente: niente movimento, niente cura, niente danza, niente senso.

 

Lo scorso week end è andato in scena al Piccolo Bellini di Napoli Sai che sono qui? del collettivo DanzaPolis e la mia domanda ininterrotta è stata: perché? Perché un gruppo di performer che si riunisce in un collettivo porta in scena un lavoro simile? Perché gestire così un’occasione tanto grande come quella di avere un teatro? Perché scrivere una presentazione tanto profonda ed efficace da creare aspettative che poi non vengono soddisfatte? Non metto in discussione il talento interpretativo, quello in alcuni momenti ha dato spessore al lavoro, ma la creazione in sé, annunciata come uno scavo nella psiche umana e nel suo essere doppio, è risultata banale e vuota. Bravi i giovani danzatori che hanno dato il cuore su quel palco, bravo Arturo Minutillo nel suo lungo assolo iniziale, intensa l’espressività tra il comico e il tragico delle tre donne, ma ad inficiare ogni sforzo performativo è stata la lontananza del lavoro coreografico dall’essere espressione di una danza d’autore.

Nella danza d’autore il teatro, la danza, l’aspetto performativo, quello interpretativo e finanche quello di improvvisazione concorrono a rendere un lavoro pregno di senso e a far sì che ci si interroghi, guardandolo, sull’esistenza e sui disagi della società, sullo stare al mondo e sulla capacità o meno di reagire e metabolizzare ciò che accade intorno. Un misto di angoscia e ansia contornati da una sottile sfumatura tragi-comica quasi sempre presente contribuiscono a rendere un lavoro qualcosa di ragionato, sudato, e in qualche modo partorito, pronto per essere messo in scena e nutrire. Troppo spesso invece la fretta di creare e mostrare rende distratti e smaniosi di presentarsi col proprio lavoro in una trascuratezza del dettaglio che rivela la natura acerba del coreografo.

Nelle stesse serate e sullo stesso palcoscenico viene però presentato anche l’interessante  lavoro di Gennaro Maione ed Elena Schisano Ego-sistema: un’alternanza di momenti molto efficaci e momenti invece più deboli. Ma quale lavoro è esente da tale alternanza? La forza del performer Maione è indiscutibile e attira a sé gli sguardi sottraendo allo spettatore la capacità di controllare la propria soglia di attenzione. In altre parole, come in un buco nero, nessuno può sfuggirgli, perché la forza gravitazionale di cui è dotato fa sì che tutto sia attirato verso di lui a prescindere dalla volontà di arrendersi alla sua carica interpretativa e a prescindere dal fatto che lo si consideri più o meno affine al proprio gusto. Un interprete che si fa guardare per tutta la durata della performance, sarà per il suo narcisismo sconfinato – di cui è senza dubbio consapevole- vissuto come un attributo positivo e come valore aggiunto da cui attingere materiale, sarà perché dà la sensazione di godersi ogni istante il suo momento senza mai scadere nella mera esecuzione, sarà perché lavora da tempo con l’estro creativo di Gennaro Cimmino da cui riceve sfrontatezza e credibilità. Accanto a lui Elena Schisano rischia, in una prima fase, la penombra, ma il sopraggiungere di un’inaspettata qualità di movimento fluida e ricercata la rende molto apprezzabile e le conferisce la luce che le spetta. Il prodotto coreografico alterna fasi di diverso spessore e contenuto e in alcuni momenti presenta piccole debolezze che andranno senza dubbio colmate con una maggiore ricerca e attenzione verso ogni secondo della coreografia e ogni singola battuta della partitura musicale. L’aspetto curioso di una coreografia come Ego-sistema si riassume forse in un interrogativo: quanto funzionerebbe senza Gennaro Maione ad interpretarla? Quanto carattere conserverebbe questo lavoro se eseguito da un altro interprete? Ed ecco che viene fuori la natura autoreferenziale della creazione che paradossalmente contrae in sé un messaggio inizialmente rivolto al pubblico: la centralità del proprio io e la visione narcisistica del mondo. Ne viene fuori una sorta di equazione: l’uomo è il centro del proprio mondo così come Maione lo è di Ego-sistema. Ma Maione se ne sarà reso conto?

Manuela Barbato

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