TORINO – Teatro Carignano, teatro all’italiana. La platea, inevitabilmente, ha timore a muoversi, anche solo per trovare una posizione più comoda sulla poltrona, qualche coraggioso si lascia scappare uno starnuto soffocato o un colpo di tosse liberatorio. Viene avvolta dal buio. Poi a fare luce, quattro colori, quattro tajer, quattro danzatrici.

Ci troviamo nell’ambito di Torinodanza e di Rua da Saudade, prima nazionale del giovane coreografo campano Adriano Bolognino. “Saudade” è una parola portoghese ritenuta intraducibile che però è riuscita a trovare diverse espressioni nell’arte. Si tratta di una certa forma di malinconia, o meglio, secondo le parole di Bolognino “è un nodo stretto attorno al passato, è una costola del presente. È guardare avanti, verso qualcosa che ancora non esiste o che forse non esisterà mai. Sentire la vita con tutti i pori della pelle, imparare a dare il giusto valore a ciò che ci circonda. Saudade è un’altalena. Un’atmosfera, uno stato d’animo, dipinta dall’infinita potenza delle immagini”.

Il lavoro prende spunto dalla poetica di Fernando Pessoa, in particolare dal concetto di eteronimi, pratica letteraria che inventa innumerevoli autori con proprie biografie e opere, anche con idee e stili differenti da quelli del creatore stesso. Si parla quindi di plasmare in toto una persona altra, esterna al sé. Così ogni danzatrice rappresenta un eteronimo che elabora la propria forma di saudade.

L’intimo diventa collettivo

Il tutto oscilla tra individualità e collettività. Si sviluppano strade personali, anche piuttosto intime, ma che si inseriscono in un percorso complessivo e comunitario. Al pubblico arriva la sofferenza, la forza e la gioia. Il gesto si fa affettato e tagliente, controllato abilmente dalle performer (Noemi Caricchia, Rosaria di Maro, Roberta Fanzini e Giorgia Longo). Si contrappone spesso all’andamento delle musiche creando un effetto di straniamento.

Bolognino sembra aver posto basi solide per permettere ad ogni artista l’esplorazione della propria saudade per poi metterla in relazione con quella delle altre. Nonostante le immagini presentate siano per lo più corali, emergono con forza i caratteri, i movimenti e gli stili individuali. E questo processo si riproduce tra gli spettatori. In una platea piena ciascuno ha vissuto un viaggio intimo, forse in alcuni casi anche sfiorando l’idea di saudade. Come Pessoa moltiplicava la sua letteratura così il coreografo campano moltiplica l’esperienza coreica.

Tante forme autonome riconducibili alla stessa origine. E il tradizionale distacco causato dall’architettura del teatro all’italiana viene colmato. Quando la luce ha nuovamente rotto le righe il pubblico appare entusiasta, dopo quell’ora in cui è riuscito a “sentire con tutti i pori della pelle”.

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