Alessandro Sciarroni

Alessandro Sciarroni è un artista attivo nelle Perfoming Arts dans la ronde. Insignito del Leone d’Oro alla carriera nella danza dalla Biennale di Venezia – e di diversi altri premi dal 2007 in poi –   è un autore eclettico e – per alcuni aspetti – misterioso. Forti di un’impostazione teatrale, i suoi lavori sono spesso caratterizzati dalla ripetizione di una pratica fisica e/o extrafisica fino ai limiti di resistenza di chi li interpreta. Sembra, inoltre, che ogni lavoro sia, non solo inevitabilmente collegato a uno o più lavori cronologicamente precedenti, ma anche che ci sia un consueto e affidabile “ritornare” di elementi visivi e drammaturgici. L’opera di Sciarroni è, nel suo complesso, capace di essere coerentemente uguale a sé stessa e contemporaneamente rinnovata e perpetuamente rinnovabile. Le sue creazioni sono stata presentate in diversi parti del mondo e prima dello stop forzato del 2020 è divenuto artista associato del CENTQUATRE-PARIS, consolidando i rapporti con la Francia.

Lo abbiamo intervistato per parlare in generale del mondo della danza e dell’arte dal vivo in epoca Covid e post-Covid, di modalità di fruizione e creazione.

Alessandro, che rapporto ha con le piattaforme streaming? Le ha usate o le sta usando?

Sì e no. Come fruitore onestamente non è una modalità che preferisco. Come artista ho avuto la fortuna di poter essere attivo “dal vivo” – seppur in minima parte – anche nell’estate del 2020, quando alcuni festival hanno ripreso in una forma ridotta le loro attività. In quello che possiamo definire invece “II lockdown” ho potuto lavorare in alcuni spazi di residenza, abitare i luoghi anche se non erano più vissuti dagli spettatori. In generale, comunque, posso dire di non aver mai aderito alla diffusione online di video di mie produzioni soprattutto perché le mie produzioni non erano e non sono mai ancora state pensate per la distribuzione dello spettacolo in streaming.

È poi cambiato qualcosa? Ha pensato a qualcosa da produrre appositamente per la diffusione online?

Sì e no anche in questo caso. Sul sito del LAC di Lugano abbiamo distribuito alcuni contenuti, più che altro documentaristici. Per me il video ha il valore di un testo, non di un surrogato della performance live. Le produzioni video devono essere pensate per il video. Sia dal punto di vista artistico che produttivo i fattori in gioco sono molto molto diversi.

La mancanza di pubblico ha comunque determinato nuove condizioni artistiche. La corporeità si perde e assume nuove significati? Ha sperimentato qualcosa di inedito per la sua ricerca?

La danza ha una caratteristica fondamentale: è incostante di natura. Ciò che viene prodotto danzando appare e scompare solo nell’esatto momento in cui la danza avviene. Io non credo che la pandemia – o qualsiasi altro evento di tale portata, bello o brutto – possano cambiare questa caratteristica. È, inoltre, anche l’aspetto che mi piace di più della danza, che ne rappresenta a pieno la fragilità e l’inafferrabilità. Allo stesso tempo ne rappresenta la sua forza perché in un modo o nell’altro viene trasmessa. E uno di questi modi è il video. Prenda la Polka Chinata. Dalla seconda metà del ‘900 è completamente sparita fino a quando un signore che si chiama Giancarlo Stagni l’ha riscoperta mediante alcuni video di documentazione e ha cominciato a studiarla. Il processo di trasmissione e di rinnovamento è insito nella nostra storia umana, la danza non si estingue.

Questo periodo ha cambiato il modo di fare, creare e organizzare il suo lavoro?

Anche qui sì e no. Nel senso che specialmente il confinamento o la riduzione del lavoro e degli incontri ha ragionevolmente instillato nuovi desideri. Lo stop forzato ha inoltre evitato la condivisione dei risultati di una determinata ricerca e quindi ha prolungato la ricerca stessa. Questo per me è stato interessante. Un conto è quando sai di avere 4 o 6 settimane e un altro è avere un orizzonte indeterminato di tempo. A fine 2020 mi sono trovato in marcia verso un lavoro con persone con cui collaboro stabilmente senza avere nessuna idea precisa da inquadrare come oggetto della ricerca. Quando poi mi sono trovato in sala (per inciso: lavoro con tutti performer freelance che quindi non lavorano solo con me) il punto di partenza è venuto un po’ da desideri esterni. In un certo senso ho fatto un procedimento inverso: di solito parto da un’idea e seleziono i performer in base a quell’idea, questa volta sono partito dalle persone. In generale ho avuto un forte desiderio di osservazione dell’essere umano da vicino, di elaborare una nuova vicinanza da riconquistare il più possibile.

Rispetto all’esperienza di lavoro mutata a causa della pandemia, crede che manterremo qualche strumento adottato negli ultimi 15 mesi?

Può essere, ma non ci credo molto. C’è già un grande desiderio di ritorno e tale desiderio aumenterà man mano che vedremo la fine delle restrizioni, con l’estate e i vaccini. Un aspetto a cui però mi sento di rivolgere una riflessione riguarda il fatto che per uno strano meccanismo questo periodo ha in qualche modo aumentato l’inclusione di alcune persone in determinati processi. Le persone fragili a causa di una disabilità hanno potuto partecipare in forma virtuale a incontri, spettacoli, eventi, al pari di tutti gli altri. Questo è un aspetto sul quale secondo me vale la pena riflettere, in tema di accessibilità nel prossimo futuro. Dovremmo ricordarci di tutti quelli che per vari motivi non potranno uscire di casa anche in futuro.

Parliamo di pubblico. Che rapporto ha con esso? È cambiato qualcosa a causa di questo periodo?

La vicinanza di chi mi segue ho potuto percepirla mediante un like o un follow sui social network, ma ovviamente è venuto a mancare il contatto. Mi piace incontrare le persone al termine di uno spettacolo, parlare e discutere. Un like o un commento non riescono a darmi una reale percezione dell’opinione di uno spettatore, anche se sono sempre grato quando vengo apprezzato, così come quando vengo criticato. Senza la nostra attività dal vivo mi è mancata essenzialmente l’energia di uno spazio abitato contemporaneamente da creatori e spettatori. Quando si tornerà in una modalità “piena” a vivere gli spazi in cui avviene una performance sarà straordinario perché tutti ci siamo resi conto di quanto sia prezioso e fragile il tempo e la condivisione reale di esso. In questo discorso – ci tengo a sottolineare – sto dando per scontato il fatto che la danza e il teatro siano qualcosa di straordinariamente impattante nella vita delle persone.

Lo spettacolo dal vivo è indispensabile per la vita sociale delle persone?

Lo spettacolo dal vivo è un lusso e i lussi sono paradossalmente indispensabili.

Una crisi è sia un pericolo che un’opportunità. Ha timori rispetto alla sopravvivenza dello spettacolo dal vivo?

No, temo solo per i suoi lavoratori. Il pericolo riguarda quelle persone che non potranno vivere più di questo. Purtroppo i sostegni non bastano se non c’è una legge sulla natura intermittente del lavoro di artista, di tecnico o di operatore dello spettacolo. L’opportunità possiamo coglierla proprio ripensando a una riforma strutturale del settore, per far sì che il lavoratore dello spettacolo venga riconosciuto e tutelato come tale.

Oltre al cambiamento di sistema cosa può rendere più gestibile il lavoro dell’artista? Rispetto a lei e alla sua associazione come è stato riorganizzato il lavoro anche in base alle limitazioni causate dal Covid?

Noi non siamo ministeriali, in tal senso posso dire che siamo liberi. La produzione da un lato è più semplificata e da un altro è più rischiosa. Non abbiamo una sede e lavoriamo tutti a distanza, da sempre. Collaboro, sia io in prima persona che i miei collaboratori storici, con diverse strutture che mettono a disposizione spazi e risorse. Per questo posso dire che non è cambiato molto, si sono solo dilatati i tempi e si sono instillate quelle necessità dettate dal protocollo sanitario nel momento in cui ci incontriamo. Siamo strutturati in una modalità che funziona, cerco di proteggere le individualità lavorative e professionali di tutti coloro che lavorano con me. Queste sono le mie intenzioni, magari non sempre ci riesco ma ci provo costantemente. 

Non le sembra che il sistema danza risenta di una scarsa considerazione da parte dei media generalisti e dei decisori politici?

Più che una scarsa considerazione mi sembra che talvolta ci sia una scarna competenza. In Italia c’è una generale difficoltà di riconoscimento – popolare – della cultura contemporanea. Questo dipende in gran parte dallo scollamento tra cultura popolare/storica e cultura contemporanea. Vedo dei piccoli cambiamenti ma la strada da fare è ancora tanta. Per fare un esempio: quando vado in Francia ci sono le scolaresche di tutte le età ai miei spettacoli, in Italia non mi è mai ancora capitato. Romeo Castellucci in Francia riempie i teatri d’opera, in Italia no. Eppure è un grande nome, un nome costruito su una carriera. In Italia chi fa arte contemporanea è ancora colui che fa cose un po’ strane. 

Rispetto a questo argomento però è anche molto influente il fatto che lo spazio della danza è ancora marginale rispetto al teatro di prosa, per esempio.

Sì, certo. Alcuni programmatori stanno equalizzando e puntano ad includere un’eterogeneità di lavori, stili e correnti artistiche nei loro cartelloni. La ricerca ha una forza importantissima tanto quanto la tradizione stessa. Però bisogna ancora lavorare al ribaltamento totale del pregiudizio nei confronti del nuovo e assimilare la lezione concettuale che permea l’evoluzione dell’arte.

Cosa ne pensa della formazione del pubblico?

Anche questa situazione legata al pubblico o al cosiddetto nuovo pubblico è qualcosa che ha a che fare con il lavoro del curatore e del programmatore. L’intercettazione del pubblico e la sua attenzione dipendono da una serie di personaggi coinvolti nella filiera produttiva e promozionale di uno spettacolo. Per quel che riguarda strettamente me so per certo che i punti di accesso ad un mio spettacolo possono essere diversi e questo rappresenta sia una forza che una debolezza. C’è un aspetto concettuale, situato in profondità, e uno più estetico. In più c’è un aspetto che definirei esotico, legato al fatto che quasi sempre metto in scena una pratica che viene ripetuta in maniera costante e ossessiva, come dicono alcuni. Questo, secondo me, può catturare diversi tipi di sguardi e allo stesso tempo deluderne molti. Per questa ragione posso solo cercare di restare fedele al mio di sguardo.

Ricambio generazionale. Come funziona in Italia? Secondo lei quali sono le difficoltà che una persona incontra per emergere nella danza come performer o nella coreografia?

Io non sono stato un danzatore, sono stato un attore quindi questo rende il mio percorso in parte atipico. In generale credo che a chi faccia coreografia negli ultimi anni non venga concesso di diventare vecchio, o meglio, di diventare maturo. Il ricambio generazionale sinceramente lo vedo, ogni anno – specialmente quando da prima del 2020 stavo molto all’estero – notavo come ogni anno emergessero dei nuovi nomi che dal basso, anche grazie agli appositi bandi under35, si sono fatti avanti. Il problema è dopo i 35 anni semmai.

Se avesse il potere di risolvere uno dei problemi del mondo dello spettacolo dal vivo e della danza cosa faresti per prima cosa?

Cambierei le visioni ai vertici delle strutture in maniera sistemica. Inizierei dal Parlamento.

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