Adriana Borriello
Adriana Borriello in uno scatto di Piero Tauro

ROMA – Ha stimolato un appassionato dibattito La conoscenza della non conoscenza, coreografia di e con Adriana Borriello, andata in scena venerdì 01 settembre a Ra.I.D. Festivals.

Una performance in cui la coreografa racconta la propria visione della danza alternando spiegazioni verbali e movimenti scenici, enunciati teorici e dimostrazioni pratiche. Un’esperienza coinvolgente che invita lo spettatore a riflettere circa la natura stessa dell’arte coreutica, la sua capacità comunicativa e la dimensione straordinaria entro cui avviene.

Danzatrice, coreografa e pedagoga, Adriana Borriello si è formata all’Accademia Nazionale di Danza e alla scuola Mudra di Maurice Béjart. Dal 1986 porta avanti un’articolata attività artistica autonoma che si divide tra coreografia, pedagogia e collaborazioni esterne. Attualmente, Adriana Borriello è direttrice artistica di AB Dance Research e del programma di formazione triennale per danzatori e coreografi Da.Re. – Dance Research.

Speculazioni sulla danza

La conoscenza della non conoscenza è andato in scena al Chiostro di Santa Chiara, quale energia trasmette quel luogo?
Il luogo è molto bello e suggestivo ma l’energia dipende anche da quello che accade in quel momento, dal pubblico.

Danzare in questo luogo è stato una sorta di ritorno a casa – sono irpina di origine – ancora più significativo dopo il lutto recente. Dunque c’erano anche delle condizioni psico-emotive particolari. Un’alchimia di sensazioni, energie, sentimenti molto diverse e molto potenti.

Per questa edizione Ra.I.D. Festivals ospita il progetto speciale Come as you are: l’arte nuda da ogni pregiudizio. Cosa ne pensa Adriana Borriello dell’abbinamento della danza con le altre arti? Nella sua serata, per esempio, c’era la mostra fotografica Pari Intervallo.
Io sono una fautrice della inter e trans-disciplinarità tanto è che vengo da esperienze formative di questo tipo, e io stessa sto conducendo un progetto di perfezionamento formativo e ricerca. Si chiama DA.RE. – Dance Research ed è un programma triennale che muove dal corpo come centro di tutte le arte sceniche e poi sconfina negli altri linguaggi. Abbraccia il teatro, la musica, le arti visive, le scienze, la filosofia. Credo che la conoscenza sia conoscenza, che poi si esprime attraverso linguaggi diversi. È interessante il confronto tra le varie “lingue”.

A proposito di conoscenza: il titolo, La conoscenza della non conoscenza, sembra di ispirazione socratica. Come diceva il grande filosofo greco: “Il vero saggio è colui che sa di non sapere”. C’è anche l’influsso di Socrate nello spettacolo?
A dir il vero no, non è in questo senso che intendo il titolo e lo spettacolo. Certo, ci sono aspetti filosofici nella performance: la condizione di umiltà di cui parlo – ovvero la capacità dell’artista di rendersi cavo per accogliere la conoscenza – è un dato per me necessario. Però il titolo non fa riferimento alla definizione socratica.

Direi che ha a che fare con quella che per me è la quintessenza dell’arte e della scena, in particolare della danza che usa il corpo come strumento diretto. Ovvero: quell’atto di umiltà in cui il danzatore, nonostante la lunga preparazione, sa che deve consegnarsi alla performance e vivere tutte le sfumature che il momento offre. Lo spettacolo dal vivo è una particolare condizione in cui l’essere umano è davanti a un altro essere umano e accadono cose tra l’artista, il suo strumento, chi fruisce della performance e il luogo che li accoglie.

È quasi un’attitudine mistica.

Adriana Borriello durante la performance ha spiegato che l’interprete, dopo aver affinato la conoscenza del proprio strumento con lo studio, perde consapevolezza di se stesso durante la performance. Le andrebbe di dirci qualcosa in più circa questa presenza/assenza che il danzatore avverte?
È chiaro che si entra in un tempo e una condizione non ordinaria. D’altronde l’origine del teatro è il rito: è ciò che sancisce la differenza tra il tempo quotidiano e una condizione non ordinaria.

Quindi sì, è un po’ un paradosso perché all’interprete è richiesta una estrema attivazione della presenza – conditio sine qua non – però è una presenza che si consegna al vuoto del momento. È una presenza totale ma è una presenza altra, non è la quella del mondo quotidiano. Ti metti per un attimo come fuori dal mondo; sei in una extra-percezione, una percezione aumentata.

Ciò che avverte l’artista in scena non può mai essere restituito a parole, è una questione esperienziale. Però ci si può speculare intorno, come stiamo facendo anche adesso.

Non esistono molte performance in cui il coreografo spiega in diretta al pubblico ciò che sta accadendo sul palco. Che importanza ha per Adriana Borriello instaurare un dialogo col pubblico?
In realtà questo spettacolo è nato, nella sua forma embrionale, durante la presentazione del mio libro presso la Lavanderia a Vapore di Torino. Era prevista una chiacchierata tra me, Alessandro Pontremoli – che ha scritto la postfazione del libro – e il pubblico. Durante la presentazione i promotori di questa iniziativa – Ricerca Per e Piemonte dal Vivo – mi hanno chiesto una piccola azione performativa. Ed ho messo in scena, da sola ma sempre col microfono, qualcosa di simile a quello che il pubblico a visto a Solofra. Era lo stesso meccanismo: descrivevo a parole alcune dei principi fondativi della mia pratica, raccontati anche nel libro, e subito dopo li agivo.

L’esperimento è piaciuto molto, ho ricevuto feedback positivi e persino lettere sia dagli addetti ai lavori che da chi è più digiuno di danza. Da lì poi ho iniziato a elaborare la performance, inserendo di volta in volta un tassello di formalizzazione in più e aggiungendo un’altro interprete. Finché non sono arrivata a quest’ultima versione in trio.

Nella versione finale, la necessità è di andare verso il pubblico attraverso due sfere: si inizia con il logos, la parola, la parte più razionale; per poi tornare alla danza, a una comunicazione più oscura. Ciò che mi intriga della Conoscenza della non conoscenza è che da una parte la parola crea un ponte tra il pubblico e noi, ma dall’altra sancisce in maniera ancora più prepotente la comunicazione non verbale della danza.

È una dimensione oracolare, tra corpo e corpo, tra inconscio e inconscio. Torniamo a ciò che dicevamo prima: possiamo speculare sulla danza, ma mai afferrarla davvero con le parole.

Secondo Adriana Borriello è necessario spiegare la danza al pubblico per facilitare la comprensione? Sarebbe bene istruire, educare il pubblico alla visione di uno spettacolo di danza?
No, sinceramente non lo credo. Penso che sia solo una questione di consuetudine: più si assiste a spettacoli di danza, più si entra in una situazione di familiarità. Inoltre ritengo che non si possa spiegare la danza a parole: ha troppo a che fare con l’essere umano in tutto il suo essere. Quindi si può speculare, ragionare, riflettere intorno alla danza senz’altro, fornire qualche strumento. Già solo parlarne porta l’attenzione sulla danza.

Il fatto è che la cultura occidentale ha reso il logos il primo elemento conoscitivo. Quindi noi oggi crediamo di avere bisogno di spiegazioni verbali, ma in realtà non è così. Eppure la maggior parte delle persone si sente rassicurata da una dimensione verbale.

A ogni messa in scena della Conoscenza della non conoscenza, a ogni feedback che ricevo, mi rendo conto del perché sto portando avanti questo progetto. Perché funziona, perché la gente va via dopo lo spettacolo appagata, però anche perché è una provocazione in un certo senso. Attraverso l’illusione di raccontare la danza – la mia visione della danza – in realtà intendo attirare il pubblico e portarlo nella conoscenza della non conoscenza, una dimensione necessaria anche per lo spettatore al fine di approcciare la danza.

Immagina di proseguire questa divulgazione con altri spettacoli? Magari anche con una performance incentrata sulla drammaturgia?
Il contenuto è la danza stessa per me, e la drammaturgia è la composizione. Infatti, all’inizio della performance invito il pubblico ad ascoltare il proprio corpo e notare se la distanza, per esempio, tra i danzatori in scena comunica qualcosa. Cosa cambia nella percezione dello spettatore se sul palco i danzatori sono lontani, vicini, disposti in modo simmetrico, asimmetrico. Questa è drammaturgia della danza.

La drammaturgia della danza è fatta di movimento, spazio, tempo e organizzazione di questi elementi. Il modo in cui organizzi e plasmi questi elementi è la composizione e la drammaturgia della danza. Poi il punto di partenza – più che il contenuto – può essere astratto oppure storico o visivo eccetera. La forma è il contenuto nella danza. Il bravo coreografo è colui che avendo una raffinata capacità compositiva plasma gli elementi della danza rendendoli eloquenti.

Il pubblico digiuno di danza cerca, magari, il significato verbale-logico. Ma non è questa la peculiarità della danza. Tutti abbiamo un corpo e quindi tutti ne abbiamo esperienza, chi in maniera più consapevole e chi meno. Quindi io sono sicura che tutti intuiscono, istintivamente, cosa comunica un movimento delicato, leggero oppure uno forte, veloce, ognuno di noi dentro di se sa a quale area emotiva corrisponde. La danza incide su questa esperienza corporea di essere umano davanti un altro essere umano.

Bisognerebbe invitare il pubblico a spogliarsi dalla ricerca di un significato logico.

Durante la performance Adriana Borriello ha indicato il ritmo come fondamento di ogni opera d’arte. Intende anche il ritmo cardiaco, il battito del cuore?
No, in verità.
Per me il fondamento dei fondamenti di ogni linguaggio artistico e anche dell’esistenza è il ritmo inteso, in ultima analisi, come relazione. Cioè il ritmo parla di come è organizzata una relazione tra elementi. Ma che non riguarda solo il tempo, bensì qualsiasi forma esperibile, percepibile, come anche lo spazio.

Quindi certo, anche il ritmo cardiaco è incluso in questa enorme, vasta possibilità di leggere ritmi nelle forme di esistenza. Ha qualcosa di primordiale, ma non è necessariamente il più importante. È uno dei più evidenti per noi, di sicuro, ma in realtà viviamo e agiamo immersi in ritmi. Nel nostro quotidiano viviamo ritmi nell’organizzazione della casa, per esempio, nella relazione delle forme, dei colori, degli spazi che compongono la nostra abitazione.

Durante la sua performance, abbiamo assistito a delle coinvolgenti esecuzioni di alterazione del ritmo, della velocità, dell’intensità di movimento. Che al pubblico possono sembrare quasi un gioco, e in effetti si percepiva anche un certo divertimento da parte vostra che danzavate sul palco, è vero?
A noi piace danzare.
Quindi quei momenti di giochi ritmici – che poi sono piuttosto elementari – hanno una dimensione ludica. La maggior parte dei giochi corporei hanno il ritmo come elemento fondante. Quindi sì, c’è un divertimento da parte nostra che crea complicità col pubblico, anche perché è proprio evidente la dimensione ludica.

Però per noi, durante la Conoscenza della non conoscenza, il divertimento è anche la danza nello spazio che si sviluppa dopo il gioco di ritmo. Forse è meno evidente per il pubblico anche perché nella parte ritmica la dimensione ludica è in primo piano. Sono combinazioni ritmiche, giochiamo col ritmo, è proprio quello. Nelle parti danzate i focus sono altri: per noi c’è sempre una componente ludica che però passa per colori diversi dal gioco. Ci sono note più drammatiche, altre più dinamiche. L’elemento ludico è sul fondo, meno evidente, perché magari prevale un colore più scuro o più astratto. Però è sempre presente.

Iscriviti alla Newsletter