Nell’ambito del progetto di ricerca Covid 19/Si cambia danza – niente sarà più come prima, Campadidanza ha intervistato Roberto De Lellis, direttore dell’ATER FONDAZIONE, circuito regionale multidisciplinare dell’Emilia Romagna per commentare lo stato dello spettacolo dal vivo ad un anno e più di pandemia.

Essendo chiusi i teatri, per continuare a creare e ad alimentare il contatto con il pubblico, molti artisti stanno usando le piattaforme streaming. Anche lei si serve delle nuove tecnologie?

Direi proprio di sì. Il 24 ottobre eravamo pronti a partire con le stagioni dei 14 teatri del circuito ATER Fondazione, quando è stato emanato il decreto che ha confernato la chiusura dei teatri. A quel punto ci siamo visti costretti a costruire una piattaforma on-line: www.teatrinellarete.it attraverso cui abbiamo trasmesso ben 11 spettacoli, realizzati nei 9 dei 14 teatri del circuito che hanno accettato la programmazione in streaming, ottenendo il ragguardevole risultato di 180.000 visualizzazioni.

E avete varato anche nove progetti di didattica a distanza.

Sì. Successivamente a questo primo esperimento, servendoci di piattaforme per meeting online, abbiamo anche varato attività di formazione sulla storia della danza contemporanea, da Isadora Duncan ai nostri giorni. Abbiamo avuto un centinaio di partecipanti, la qual cosa ci ha motivato per continuare ad organizzare altri progetti simili: laboratori, spettacoli, lezioni teatrali per studenti dalle elementari alle superiori, una residenza nonché un progetto di drammaturgia sul teatro per ragazzi, rivolto agli insegnanti.

Quindi mentre in un primo momento avete sfruttato le piattaforme online per continuare l’attività in corso, in una seconda fase avete creato nuovi contenuti sfruttando le potenzialità della rete.

Sì, è esattamente quanto abbiamo fatto. Se gli spettacoli trasmessi in streaming sono seguiti da un gran numero di persone, i progetti e i laboratori organizzati sulle piattaforme di videoconferenza danno la possibilità di interagire. Quindi, se nel primo caso il messaggio che si trasmette è a senso unico, nel secondo la diffusione è più limitata, ma si ha il vantaggio di poter avere un vero e proprio scambio con chi segue.

Partendo dall’assunto che queste piattaforme streaming stanno determinando nuove condizioni artistiche, secondo lei, l’assenza del pubblico sta cambiando anche il modo di fare danza? La corporeità sta assumendo nuovi significati?

La danza l’abbiamo usata esclusivamente nella prima fase, quando abbiamo trasmesso tre lavori della compagnia di Monica Casadei e uno della compagnia di Michele Merola, ma si è trattato semplicemente della ripresa in teatro dei loro spettacoli. Nella seconda fase, invece, quella in cui abbiamo usato le piattaforme di videoconferenza, quando mi sono trovato a dover scegliere nuovi progetti, non ho trovato lavori di danza che si prestassero molto a questo genere di piattaforme. Al massimo mi sono arrivati dei tutorial, in cui si insegnavano alcuni passi di danza, che potevano essere interessanti per i bambini piccoli. Francamente, esclusi i laboratori didattici, mi sembra che la danza faccia più fatica ad affermarsi. Se con lo streaming classico, in cui la ‘ricezione’ è passiva, la danza, se ben ripresa, si vede più volentieri che non il teatro, in una ricezione interattiva è vero il contrario.

Mi sembra di capire che non sta cambiando la danza, ma il modo di organizzare, promuovere e trasmettere l’arte. Lei ritiene ci sia qualche scoperta legata a questo particolare momento di cui ci si potrà servire anche quando la pandemia sarà finita?

Credo che, per quanto riguarda la formazione, si potrà continuare ad utilizzare questi mezzi in maniera molto proficua. Ad esempio, il ciclo di lezioni attraverso cui lo spettatore ha potuto imparare la storia della danza moderna e contemporanea si è rivelato molto utile ed ha avuto un riscontro molto positivo. Abbiamo dovuto addirittura respingere delle richieste, perché uno degli aspetti positivi di questi strumenti è che si può raggiungere un pubblico molto vasto. A parte la formazione, anche il radiodramma funziona molto bene su queste piattaforme, perché con la narrativa teatrale si può creare un’interazione simile al coinvolgimento che ci può essere nello spettacolo dal vivo.

Considerato che le nuove modalità di distribuzione, come le piattaforme streaming o di video conferenza, hanno modelli economici molto diversi da quelli dello spettacolo dal vivo, secondo lei, si può pensare a un nuovo modello di ritorno economico?

Un po’ perché siamo neofiti, un po’ per complicazioni amministrative, finora abbiamo rinunciato a organizzare eventi a pagamento. Adesso, però, che abbiamo già sperimentato una fase 1 e una fase 2, siamo anche pronti a trasformare in economia la modalità streaming. Quindi, per rispondere alla domanda, secondo me sì, c’è questa possibilità. Si può far pagare un biglietto e ci può essere un’economia collegata allo streaming. Certo, si tratterebbe di progetti molto più semplici, che dovrebbero costare meno a chi li realizza e li produce.

E poi c’è il problema del riconoscimento ministeriale….

Appunto. Per pensare a un nuovo modello di ritorno economico bisognerebbe affrontare e risolvere il problema del riconoscimento dello streaming. Il Ministero, a noi circuiti, ha detto che questo tipo di spettacoli non sono rendicontabili. Quindi, i famosi borderò non li possiamo emettere, ma per il Ministero questo tipo di attività va considerata come attività promozionale.

Secondo lei, i canali tematici televisivi potrebbero sostenere lo spettacolo dal vivo durante e anche dopo la pandemia? 

Potrebbero farlo solo relativamente, perché questi canali, secondo me, hanno bisogno per fare audience di nomi di grande risonanza perché lì conta la pubblicità, oltre al canone. Quindi è chiaro che la pubblicità c’è, se si tratta di Muti o di Bolle.

Questa emergenza ha indubbiamente cambiato il rapporto con il pubblico. Cosa ne pensa delle comunità virtuali che la pandemia ha creato o rafforzato fra danzatori e pubblico?

Si tratta di forme di comunicazione importanti che ci hanno tenuto in vita, ci hanno consentito la continuazione di un dialogo, di approfondire le tematiche di attualità mantenendoci nel vivo del dibattito. Attraverso queste comunità abbiamo potuto mantenere un legame importante con artisti, organizzatori e colleghi. Ci sono servite per mantenere una lucidità.

Quando la pandemia sarà finita e finalmente si tornerà in teatro, quali saranno le tracce di questa lunga separazione tra gli artisti e il loro pubblico?

L’estate scorsa, quando siamo tornati in scena dopo il primo lockdown, che  sembrava più duro di quello che stiamo vivendo adesso, ma che oggi definirei più mite e, in un certo senso, più romantico, il pubblico è tornato con una grandissima voglia di partecipare e di esserci. Non avevo mai visto spettatori così motivati, così attenti, così interessati e così bisognosi di recuperare la relazione con il mondo dello spettacolo. Credo, quindi, che il pubblico ci sia. Il mio grande dubbio è tra ‘aperto’ e ‘chiuso’.

Intende spettacoli all’aperto e al chiuso.

Avendo avuto l’esperienza dell’anno scorso, sono convinto che le persone torneranno con molto piacere ad assistere a spettacoli organizzati all’aperto. La scommessa si gioca sul ‘chiuso’. Quando andremo a chiedere a uno spettatore chiedere il tampone o la patente vaccinale per entrare a teatro, temo che ci potrà essere un allontanamento. Bisognerebbe semplificare molte cose per invogliare la gente a tornare in teatro.

Pensiamo alle criticità del post pandemia. Per artisti e lavoratori dello spettacolo, procurarsi un lavoro è cosa difficile anche in tempi covid free. Cosa dovrebbe cambiare per rendere più semplice lavorare in teatro?

Purtroppo temo che, anche quando l’emergenza sarà passata, sarà ancora più difficile lavorare nell’ambito dello spettacolo dal vivo. Quando i teatri riapriranno, avranno a che fare con il problema delle capienze ridotte, quindi minori incassi e la necessità di trovare spettacoli che costino meno. Ripartirà bene chi è molto strutturato, chi riceve finanziamenti, in poche parole, chi ha già le spalle coperte.

Ritiene ci siano delle soluzioni ‘a portata di mano’ alle quali non si sa come o non si vuole ricorrere?

Probabilmente bisognerà ricorrere ancora per un bel po’ di tempo agli ammortizzatori sociali, a forme di incentivazione o di accompagnamento alla disoccupazione. Ciò per garantire quello che in Francia, per esempio, avviene normalmente attraverso il sistema degli intermittenti, che permette di avere periodi di non occupazione, senza che i lavoratori ne subiscano conseguenze economiche. Bisognerebbe prevedere qualcosa di simile per consentire agli artisti di non abbandonare la loro professione e trovarsi costretti a fare altri lavori.

Proprio a proposito di sostegni finanziari, lei ritiene che l’Emilia sia adeguatamente sostenuta dalle risorse pubbliche?

L’Emilia Romagna ha un sistema forte, grazie a cui buona parte delle imprese sono sostenute. C’è un teatro nazionale, una fondazione lirica, sei teatri di tradizione, quattro centri di produzione per ragazzi, un centro di produzione per ricerca, un circuito e diversi festival. Chi soffre di più sono le compagnie di produzione, che sono finanziate molto meno, quindi, compagnie di danza anche importanti che non hanno adeguati sostegni dallo Stato faranno fatica a ripartire se non riparte l’intero mercato. In Italia molti problemi c’erano anche prima della pandemia.

Lei ritiene che un censimento dei lavoratori e delle imprese aiuterebbe il sistema dello spettacolo dal vivo?

Sarebbe senzaltro utile. Quando il Ministero, per esempio, ha voluto dare un piccolo sostegno alle compagnie che non erano finanziate dal FUS (fondo unico per lo spettacolo), è emersa tutta quella parte di lavoratori che non è assistita, ed è proprio questa realtà che si corre il rischio di perdere, perché costituisce la parte più fragile del mondo dell’arte che, in mancanza di appoggio e finanziamenti farà fatica a riaffermarsi.

Parliamo dello spazio che viene dato alla danza. I teatri non programmano o programmano pochissimi spettacoli di danza. Perché?

Per rispondere a questa domanda, bisogna fare un discorso diversificato. Il balletto classico di alto livello viene programmato soprattutto nei teatri lirici. Quindi a programmarlo sono La Scala, il San Carlo e l’Opera di Roma. Volendo giocare con le parole: “dalla Scala si passa alle scuole” ed è chiaro che il prodotto scuola ha un mercato molto limitato.

E’ la produzione il vero ‘tallone d’Achille’ della danza?

Secondo me sì. Per quanto riguarda la danza contemporanea il problema è che molti teatri medio-grandi, come i teatri di circa 800/1000 posti, nella produzione italiana non trovano un’offerta adeguata. Anche se volessero allontanarsi dal balletto classico, che trovano in Russia o nei paesi dell’Est, dove le produzioni hanno costi contenuti e una buona qualità, fanno fatica a trovare spettacoli nell’ambito della danza moderna e contemporanea. Perché in questo ambito ci sono prodotti con piccole formazioni. Una valanga di assoli e di progetti che non sono adatti a teatri grandi.

In Italia, poi, le compagnie medie, con un organico di 8/10 danzatori in scena, si contano sulla punta delle dita. Quindi, la tendenza è quella di cercare all’estero. Andando, invece, sulla danza contemporanea d’autore, di ricerca, si trovano cose interessanti, ma che per loro stessa natura, radunano un pubblico limitato, di 100/200 spettatori al massimo.

Secondo lei perché la danza contemporanea, anche d’autore, ha cosi poco pubblico?

Non è vero il pubblico c’è. Il problema, come dicevo, è che non c’è un’offerta adeguata. Io abito a Reggio Emilia e si fa tanta danza, però il Teatro Valli, per esempio, ha una programmazione di danza quasi esclusivamente internazionale. Tutti i più grandi della scena mondiale passano da Reggio Emilia e da Ferrara, ma non passano gli italiani, perché, tolto l’Aterballetto e poche altre compagnie, non ci sono produzioni di una certa grandezza e qualità. La danza ha un pubblico potenzialmente molto alto, quando vado a teatro, c’è sempre il pieno. Dada Masilo, per esempio, riempie anche 1000 posti, ma questo non succede alle compagnie italiane che non siano l’Aterballetto, Zappalà o Virgilio Sieni.

Una nota dolente: parliamo del sistema di formazione dei danzatori, delle professioni della danza e del fatto che abbiamo una sola Accademia della Danza in Italia, cosa ne pensa?

Non credo che in Italia ci sia un problema di formazione, perché vedo tanti danzatori di ottimo livello. Per esempio, sempre parlando della mia città, a Reggio Emilia c’è un’ottima scuola di perfezionamento, Agora Coaching Project di Michele Merola. Vengono ragazzi da tutta Italia per frequentarla. Trascorrono qui due anni, ma finito il corso vanno a lavorare all’estero, in Germania o in Francia. Fanno i provini e vanno a lavorare fuori.

Sono d’accordo sul fatto che ci sono bravissimi danzatori in Italia, ma non pensa sia un problema che ci sia solo l’Accademia a ‘certificarne’ la formazione?

Io credo che ci siano occasioni di formazione importanti anche in Italia. Il problema, piuttosto, è dopo. Una volta formatisi, i ballerini qui non trovano lavoro. In Francia, per esempio, ci sono ben diciannove centri coreografici molto produttivi ed efficienti, in Italia la situazione è completamente diversa.

lI mestiere di danzatore in Italia è precario, quindi.

Si, non c’è possibilità di lavorare con continuità. Se i ballerini dell’Aterballetto hanno contratti di 12 mesi ed un luogo in cui produrre, gli altri danzatori, attraverso sistemi di residenza, si spostano in giro per l’Italia facendo 7 giorni in un posto e 7 giorni in un altro, senza contratti fissi. È per questo che stentano a nascere compagnie affiatate e un mercato competitivo di produzioni legate a case della danza che abbiano ingenti risorse da investire. Cosa, invece, che dagli anni 60 in poi, è accaduta per il Teatro, che mano a mano ha costruito un sistema in grado, anche tra mille problemi, di assicurare una produzione teatrale.

Se potesse risolvere i problemi del mondo della danza, che cosa farebbe per prima cosa?

Costituirei almeno dieci centri coreografici ai quali accedere per concorso. Ne affiderei la produzione artistica a un coreografo che dovrebbe cambiare ogni 5/6 anni. Li dislocherei, almeno inizialmente, tra le città più importanti d’Italia, da Torino a Napoli. Questo significherebbe avere dieci corpi di ballo in grado di lavorare con diversi coreografi e una produzione di qualità da far spaziare dal neoclassico all’hip hop, passando per il teatro danza. Per far ciò sarebbe necessario un intervento statale con un finanziamento di almeno 10/15 milioni di euro. Bisognerebbe invertire la tendenza e far sì che non sia il privato a dover emergere e chiedere riconoscimento allo Stato, ma lo Stato a fare un investimento molto importante sul piano della produzione.

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