Natalia Casorati

Nell’ambito del progetto di ricerca Covid 19/Si cambia danza – niente sarà più come prima, Campadidanza ha intervistato Natalia Casorati, direttrice artistica organizzativa dell’Associazione Culturale Mosaico Danza e del Festival Internazionale di Danza Contemporanea Interplay.

Natalia, i teatri sono chiusi e, di conseguenza, gli artisti cercano nuove modalità di contatto con il pubblico. Moltissimi sfruttano le piattaforme streaming. Anche lei si serve di questi mezzi?

Sì, lo scorso maggio siamo stati tra i primi a dover ricorrere alla modalità streaming. La pandemia aveva colto tutti di sorpresa, quindi, essendo Interplay uno dei primi Festival della stagione primavera-estate, abbiamo dovuto velocemente trovare una soluzione alternativa per assicurarne lo svolgimento. Nostro malgrado, abbiamo dovuto ripetere questa esperienza anche a novembre ed ora aspettiamo di vedere che cosa succede. In caso di nuove chiusure ce ne serviremo nuovamente.

Ha trasformato in digitale il Festival così come era stato programmato originariamente, oppure ha anche creato nuovi contenuti?

Rispetto alla programmazione passata, abbiamo dovuto trasportare tutto in streaming. Per quanto riguarda la nuova edizione del Festival, prevista per maggio/giugno 2021, stiamo ragionando sul da farsi. La programmazione, almeno inizialmente, l’avevo fatta pensando che i teatri sarebbero stati aperti, adesso, invece, stiamo cercando di capire come organizzarci qualora rimanessero chiusi. È molto difficile pensare di proporre ancora una volta tutti gli spettacoli in streaming, il pubblico non ne può più. Stiamo pensando a soluzioni alternative, che siano accattivanti e che non consistano semplicemente nel mandare online gli spettacoli così come sarebbero andati in scena.

La necessità di ricorrere a nuove tecnologie, determina nuove condizioni artistiche. Crede che l’assenza di pubblico dal vivo stia cambiando la danza?

Secondo me sì, l’assenza del pubblico dal vivo compromette, in parte, l’idea stessa dello spettacolo. Senza spettatori viene meno l’energia che si crea quando la performance è live. Ai danzatori manca l’emozione di vedere il pubblico in platea e l’esibizione diventa qualcosa di diverso.

La corporeità si perde o assume nuovi significati?

Credo che questo dipenda dallo spettacolo e dalla capacità registica digitale. Quest’anno, proprio partendo da questa considerazione, abbiamo lanciato un bando per uno spettacolo in formato digitale che favorisse la collaborazione di un fotografo e un videomaker. Questo perché, dopo l’esperienza dell’estate scorsa, ci siamo resi conto che chi ha avuto la capacità di usare una ripresa video efficace ha ottenuto un ottimo risultato anche nello streaming.

Il bando prevedeva anche un supporto economico?

Sì, abbiamo previsto un supporto economico proprio al fine di creare un format che funzionasse per lo streaming.

Secondo lei, queste nuove modalità permettono di sperimentare e ottenere risultati artistici innovativi?

Certamente. Tutti noi, del resto, da questo 2020 così particolare, abbiamo imparato nuove pratiche e nuove metodologie di lavoro. Credo che lo stesso sia capitato agli artisti, i quali saranno stati ispirati e porteranno nella loro arte le esperienze e le sensazioni vissute durante questo periodo. In parte ciò è già accaduto e sta accadendo.

Se la pandemia non ha fermato la creatività, ha sicuramente cambiato il processo creativo. Crede che questa esperienza stia cambiando anche il suo modo di ‘organizzare’ l’arte?

Sicuramente è cambiato il modo di condividere i processi organizzativi con il team. Abbiamo tutti imparato a lavorare da remoto e abbiamo digitalizzato parte dei documenti per renderli sempre accessibili da qualsiasi luogo. Tutto ciò, quindi, ha anche favorito delle ‘buone pratiche’. E, se è vero che il lavoro in presenza consente di scambiare idee e di avere un rapporto diretto con i colleghi, il lavoro da remoto non è tutto negativo.

Quindi ci sono anche nuove metodologie che si continueranno a sfruttare a pandemia finita?

Auspicando che i teatri riaprano, con il mio team ho già pensato che quest’anno, oltre alle performance live, trasmetteremo, in ogni caso, il Festival anche in streaming. A causa della capienza ridotta che avranno i teatri, credo che non si abbandonerà completamente la programmazione online che, oltretutto, consente di raggiungere un pubblico molto vasto nelle località più disparate. Un altro feedback positivo, ricevuto dall’edizione streaming 2020 di Interplay, è stato quello del pubblico diversamente abile, il quale, se normalmente ha difficoltà ad andare al teatro, con la programmazione online ha potuto godere di tutti gli spettacoli.

Queste nuove modalità di distribuzione hanno modelli economici molto diversi da quelli dello spettacolo dal vivo. Che tipo di ritorno economico possono dare le piattaforme streaming? 

Questo è il problema che ci stiamo ponendo tutti. È difficile pensare a un nuovo modello di ritorno economico perché non so quante persone sarebbero disposte a pagare per vedere uno spettacolo online. Lo dico con cognizione di causa, perché, l’anno scorso, abbiamo sottoposto al pubblico un questionario. Gli abbiamo domandato se sarebbero stati disposti a pagare un biglietto per vedere una performance in streaming e la risposta non è stata incoraggiante. Quindi non credo che possa diventare una modalità alternativa di guadagno, ma si può senz’altro aggiungere a quella preesistente 

Secondo lei i canali tematici come Rai 5, Sky Arte e Sky HD potrebbero sostenere lo spettacolo dal vivo durante e anche dopo la pandemia?

In parte, potrebbero. Anzi, sarebbe auspicabile che non fossero sempre e solo i grandi nomi e i grandi spettacoli ad andare in onda. Ma le emittenti che si occupano di arte non danno quasi mai spazio ad autori, coreografi e artisti più giovani e meno conosciuti. In televisione, inoltre, dovrebbe essere promossa la danza contemporanea che è ancora molto poco conosciuta.

E in che modo la televisione potrebbe supportare anche giovani e non solo i grandi nomi che richiamano pubblicità e sponsor?

Facendo un piano strategico di scelte artistiche che, per esempio, potrebbero essere condivise con i festival. Questi canali potrebbero fare una mappatura e, in base al risultato, creare una strategia di comunicazione dedicando una parte del loro palinsesto alla danza contemporanea e ai giovani. Secondo me si potrebbe fare, il problema è che in Italia non c’è alcuna volontà di investire e credere nella cultura. Basti vedere le differenze tra le scelte adottate durante la cosiddetta zona rossa in Francia, dove le librerie sono sempre state aperte e i teatri lo erano per gli operatori, mentre da noi hanno riaperto solo bar, ristoranti e parrucchieri.

Quali saranno secondo lei i rapporti fra la performance dal vivo e le forme di produzione e distribuzione che oggi si stanno sperimentando e progettando?

Credo possano viaggiare parallelamente. Non penso si possano accantonare le competenze e le esperienze che abbiamo maturato in questo anno di pandemia con l’uso delle tecnologie. Credo possa essere una modalità che si affianca a quello dello spettacolo dal vivo.

Questa lunga emergenza ha cambiato il rapporto con il pubblico. Cosa ne pensa delle comunità virtuali che la pandemia ha creato o rafforzato fra danzatori e pubblico?

È benvenuta qualsiasi cosa valorizzi la diffusione della danza contemporanea e la ricerca, oppure potenzi la comunicazione, accresca il pubblico o la comunità artistica. Se queste comunità virtuali sono riuscite a coinvolgere un bacino di utenti maggiore e, di conseguenza, più persone si sono avvicinate al linguaggio della danza contemporanea, ritengo che siano un fenomeno assolutamente positivo, perché queste stesse persone potrebbero, un domani, venire al teatro.

Quando la pandemia sarà finita e si tornerà in teatro, dal suo punto di vista come sarà cambiato il rapporto tra artisti e pubblico? 

Non sarà facile tornare a frequentare i luoghi dell’arte. La gente avrà timore per ragioni di sicurezza sanitaria, e, probabilmente, dovrà anche fare i conti, con problemi di carattere economico. Inoltre, uno o due anni di distanza dalla cultura hanno compromesso la formazione del pubblico, soprattutto quello dei più giovani, che, a mio avviso, non è stato aiutato ad avvicinarsi all’arte. Spero in un ritorno appassionato del pubblico in teatro, ma nutro forti dubbi in proposito.

Ritiene che lo spettacolo dal vivo sia indispensabile alla vita sociale?

Sì, credo che sia indispensabile. Andare al teatro, uscire di casa, vestirsi in un certo modo, vedersi con gli amici, magari fare un aperitivo insieme prima di andare a vedere uno spettacolo sono tutte cose importanti che fanno parte della nostra socialità. Penso proprio che la solitudine che tutti stiamo vivendo sia molto pericolosa.

Lo spettacolo dal vivo sopravviverà?

Deve sopravvivere!

Trovare lavoro, anche prima della pandemia era difficile, figurarsi ora…
Credo si debba puntare sulla formazione. Dare soldi a pioggia non credo possa risolvere il problema. Bisognerebbe, invece, organizzare corsi di formazione informatica, digitalizzazione, corsi di lingue e tutti quei corsi che possano consentire ai giovani di acquisire competenze ed essere competitivi sul mercato. Quando si ripartirà, bisognerà essere preparati.
Le problematiche della gestione economico-amministrativa, quanto tempo portano via al suo impegno artistico e organizzativo?

Purtroppo, qui in Italia, le pratiche amministrative, la burocrazia, la ricerca di fondi, la compilazione di bandi, portano via circa l’80% del tempo, togliendo energia e forza che, tanto più volentieri dedicherei ai progetti artistici. Mi auguro che le amministrazioni, dopo la pandemia, snelliscano notevolmente queste pratiche. 

Considerato che i finanziamenti territoriali hanno una parte decisiva nella promozione dell’attività artistica, ritiene che il Piemonte sia adeguatamente sostenuto a livello nazionale e locale? 

Assolutamente no. Dal 2012/13 in poi, il Piemonte ha avuto grandi criticità che sono poi aumentate di anno in anno. Noi riceviamo i saldi dei contributi due anni dopo che li abbiamo maturati. Un anno e mezzo fa, ho anche condotto un’indagine tra tutti i colleghi AGIS per sapere quando ricevevano i contributi assegnati dalla Regione. Il risultato è stato che, insieme ad Abruzzo, Puglia e Calabria, il Piemonte è la regione che aspetta più a lungo. In quanto a tempistiche, siamo davvero messi male. Siamo sommersi da pratiche e da documenti che ci costringono a rifare 1000 volte. 

Il sistema dello spettacolo dal vivo, più ancora il settore della danza, sembra molto poco conosciuto dal pubblico, dai media e soprattutto dai decisori politici. Cosa pensa si dovrebbe fare al riguardo?

Credo che in parte la responsabilità sia anche di chi la danza la organizza e la promuove. Dovremmo tutti cercare di favorire progetti che avvicinino il pubblico alla danza. A Torino, negli anni ’90, quando ho iniziato la mia attività, ho trovato grandissime difficoltà nel far conoscere la danza contemporanea. Non c’era pubblico né contributi. Ho dovuto fare un lavoro dal basso. Sono partita dall’esterno dei teatri, organizzando eventi di danza in piazza, nei negozi, nelle gallerie d’arte, ovunque, pur di suscitare l’interesse delle persone e creare un seguito. Pensa che, sempre negli anni ’90, quando è venuta Pina Bausch, al Teatro Reggio c’erano soltanto una decina di persone. Se si parla di danza, la gente pensa al balletto. Si dovrebbe favorire una cultura del linguaggio contemporaneo, che poi non riguarda solo la danza, ma anche l’arte, i musei, la musica, la cultura in senso ampio.

Pensa che un censimento dei lavoratori e delle imprese aiuterebbe il sistema dello spettacolo dal vivo ad essere conosciuto dal pubblico?

Da parte delle amministrazioni locali, sapere chi lavora sul territorio, sarebbe importante. In Emilia Romagna, per esempio, l’hanno fatto. Essere consapevoli di quali sono le compagnie, gli eventi, le manifestazioni, gli operatori e i programmatori, senz’altro aiuterebbe. Non saprei dire se sarebbe utile anche per il pubblico, ma se gli enti pubblici fossero a conoscenza di cosa accade nel loro territorio, potrebbero capire che risorse investire e in che modo. 

Parliamo degli spazi della danza e del suo ruolo marginale nell’ambito degli spettacoli dal vivo. I teatri non programmano (o programmano pochissimi) spettacoli di danza. Perché?

Forse sarebbe più utile rivolgere questa domanda a chi dirige un teatro. Quello che posso dire è che di sicuro è un problema il riconoscimento dei borderò. Il circuito dei teatri fatica a programmare la danza perché convinto che il pubblico non va a vederla. Bisognerebbe fare un gran lavoro per far si che la danza non si identifichi solo con il balletto classico. Altrimenti siamo fermi e non avremo pubblico per la contemporanea 

Come si può formare e coinvolgere il pubblico?

Negli ultimi anni molti festival e teatri hanno scelto di di sostenere e promuovere i linguaggi del contemporaneo. Per quanto mi riguarda, il lavoro che ritengo più efficace a tal scopo è quello di portare la danza fuori dai teatri.  Ed è esattamente ciò che ho fatto per avvicinare alla danza contemporanea un pubblico che non la conosceva. Altra cosa fondamentale è la formazione. Ritengo sia molto importante organizzare stage con coreografi internazionali per l’educazione dei ragazzi e far sì che chi frequenta i corsi di danza vada anche al teatro. Noi abbiamo fatto molto in tal senso, ma non è sempre semplice, perché per fare ciò, occorrono risorse.

Parliamo del sistema di formazione dei danzatori e delle professioni della danza. Secondo te questo sistema formativo è adeguato alle esigenze degli artisti e delle imprese? è utile all’ingresso nel mercato del lavoro?

Credo che l’Italia sia molto carente da questo punto di vista. Parlando dei tecnici, per esempio, so che mancano fonici. Quindi, pensando proprio ai posti di lavoro per la realizzazione di spettacoli dal vivo, perché, invece di organizzare soltanto corsi per formare organizzatori, non pensare anche ai tecnici: tecnici di palco, light designer, ingegneri del suono e tutte quelle figura professionali che sono indispensabili per lo spettacolo dal vivo? 

Sempre a proposito di formazione, cosa ne pensa del fatto che in Italia abbiamo una sola Accademia della Danza?

Una sola accademia di danza è pochissimo e a ciò si aggiunge un ulteriore problema: mentre all’estero le accademie di spettacolo formano anche a livello organizzativo (distribuzione, project  manager, producer, etc.) qui in Italia, l’Accademia è assolutamente carente da questo punto di vista.

In Italia il ricambio generazionale è difficile anche nella danza. Secondo lei perché? 

Credo sia un limite del sistema italiano. Qui non siamo abituati alla mobilità e, a differenza di altri Paesi come la Francia, da noi i direttori dei centri coreografici difficilmente si spostano da una regione all’altra. Oltretutto non ci sono bandi trasparenti e non esiste una reale possibilità di cambio generazionale.

Se improvvisamente avesse il potere di risolvere i problemi del mondo della danza che cosa farebbe per prima cosa?

Sarebbero tante le cose da fare, dal riconoscimento dei borderò negli spettacoli e nelle stagioni teatrali, ai finanziamenti alle compagnie e ai festival. Anche a proposito della formazione bisognerebbe risolvere il problema del riconoscimento dei titoli. Dovrebbero esserci accademie in tutta Italia per evitare che i ragazzi vadano a formarsi tutti all’estero. Bisognerebbe garantire una maggiore permeabilità dei vari settori per garantire una formazione migliore e fornire spazi adeguati. 

Credo che rispetto a quando ero giovane siano cambiate molte cose, ma ancora tantissimo c’è da fare.

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