TORINO – La coreografa e performer Silvia Gribaudi ha portato sul palcoscenico di Torinodanza Festival, in prima nazionale, un originale e divertente studio sul rapporto tra pubblico e messa in scena, dal titolo Monjour.

Un percorso nato nel 2019, messo in discussione nel 2020 e resuscitato nel 2021. Inizia durante la prima residenza a Prali, in val Germanasca, per poi essere ripreso fra le valli di montagna e la città nell’ambito del progetto europeo Corpo Links Cluster.

Ben riuscito ancora una volta il processo di rottura dei canoni estetici

La coreografa si confonde tra la platea: il gioco comincia e si instaura un ironico dialogo tra le tre componenti teatrali presenti, regista, performer e spettatori.

L’esperienza si apre con una nudità maschile. Non si tratta tanto di un elemento erotico quanto piuttosto ridicolizzato, goffo e comico. I corpi dei danzatori ci sono mostrati, in tutta la loro diversità, spontanei e assolutamente autentici. Da anni il lavoro della Gribaudi infatti opera un processo di rottura dei canoni estetici e di studio dei corpi nella loro quotidianeità.

Tra le musiche di Nicola Ratti da un lato e Gioachino Rossini dall’altro, i performer coinvolgono il pubblico contando un ritmo, che sembra quasi ricordare le bacchettate delle insegnanti di ballo, per poi esprimersi in pose ironiche e volteggi grotteshi. Una sana presa in giro: i concetti di grazia e di purezza propri della danza accademica vengono finalmente dissacrati.

It is for you! I love you. Quel tempo, quell’azione è per noi”

L’effetto oscilla tra una prova aperta e un talent show in cui ciascun artista, a turno, cerca disperatamente l’attenzione dello spettatore, il quale può decidere di sostenere l’artista o decretarne la morte. In corso d’opera viene ripetuta una costante dedica: It is for you! I love you. Quel tempo, quell’azione è per noi. Così si assiste, o meglio si partecipa ad un rito collettivo che celebra il senso stesso del teatro, e forse dell’umanità intera: la necessità di esistere attraverso l’insopprimibile relazione con l’altro.

A fare da sfondo interessanti illustrazioni pop di Francesca Ghermandi che interpretano alla perfezione l’atmosfera e le intenzioni della performance. Il disegno pare rivolgere una critica al sistema teatrale contemporaneo, adoperando ancora quel tono ironico di fronte al quale non si riesce a smettere di ridere nè di pensare.

La danza come metafora della vita, poesia pura

Eccezionali i cinque performer Salvatore Cappello, Nicola Simone Cisternino, Riccardo Guratti, Fabio Magnani e Timothèe-Aïna Meiffren. Chi li guarda viene colpito dal loro “amore”. Il pubblico, composto anche da giovanissimi, è divertito, rapito e coinvolto. La comicità accoppiata ai virtuosismi rappresenta un grido di autodeterminazione quali portatori di una nuova danza, che oggi da molti ancora non viene nemmeno ritenuta tale. Ma altro non è che una metafora della vita, dell’amore e della passione. Poesia pura.

Infine lo spettatore viene lasciato sospeso, privato di un finale inteso in senso tradizionale. Viene invitato a prendersi il suo tempo. Viene affettuosamente accompagnato all’uscita, ma non costretto. Ed è così che il pubblico di Monjour decide di sostenere l’artista piuttosto che decretarne la morte.

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