Al Teatro Bellini di Napoli “la Verità”, il nuovo lavoro della compagnia Finzi Pasca, colpisce per le magiche atmosfere create e per la capacità di portare il pubblico in un universo leggero e giocoso risvegliando negli adulti lo stupore che solo i bambini sanno provare.

Spettacolo dedicato alla verità intesa come tutto ciò che fa parte del sogno, ma anche della realtà, della fantasia e della memoria secondo la visione di Julie Hamelin Finzi, collaboratrice e moglie del regista, su cui poi si è sviluppata l’idea centrale dello spettacolo.

Il sipario si apre sul gigantesco telone raffigurante un lavoro di Salvador Dalì e tutto, ma proprio tutto nel susseguirsi dei quadri scenici, riporta a riferimenti, più o meno manifesti, tipici del surrealismo. Le spirali metalliche sospese su cui gli artisti volano in acrobazie singole o in coppia, le grandi maschere tridimensionali che riproducono il capo di rinoceronti, i giocolieri, il volto dello stesso Dalì riproposto più volte con l’ausilio di trucchi scenici, ma più di tutto la contemporaneità di azioni profondamente diverse tra loro testimonianza questa della non linearità della realtà.

 

Il mondo in cui viviamo è caotico, tanto nel fuori – inteso come dimensione della condivisione quotidiana – quanto nel dentro – ossia nello spazio mentale in cui abitano pensieri e immaginazione – il risultato che viene fuori dalla mescolanza di entrambe le dimensioni della vita di ogni essere umano è, appunto, un quadro tipico del surrealismo in cui realtà e immaginazione, azione e pensiero si mescolano a tal punto da non poter essere più separati.

 

Da questo punto di vista l’obbiettivo, quello annunciato nel titolo, è pienamente centrato: la verità è tutto, è il dentro, ma pure il fuori e nessuno è in grado di discernere il reale dall’immaginario perché tutto è semplicemente “vero”.

A far calare l’attenzione, e così pure un apprezzamento che poteva essere totale in quanto a talento e abilità scenica degli artisti coinvolti, è stata una comicità scarsamente efficace, non tanto nelle interpretazioni gestuali né nella mimica sempre forte seppure con una tendenza evidente verso la clowneria, ma la banalità di dialoghi e piccoli siparietti comici a volte troppo demenziali e vicini al genere “Colorado” delle reti mediaset. Una maggiore ricercatezza nello scambio di battute avrebbe reso più forte l’idea nello spettatore di assistere ad uno spettacolo teatrale allontanandolo dalla tentazione di considerarlo solo uno spettacolo da circo. Nonostante l’arte circense abbia una sua dignità che non si vuole certo intaccare, si osserva soltanto che la trasposizione di evoluzioni acrobatiche e momenti di giocoleria dal telone del circo al palcoscenico del teatro dovrebbe pure comprendere una sublimazione del genere dallo stadio circense a quello più specificamente teatrale fatto non solo di abilità, ma di senso artistico ricco di contenuto e ricercatezza. Il pubblico in teatro è certamente più esigente e l’alternanza di momenti emotivamente molto forti con momenti estremamente deboli e banali porta con sé il rischio di non considerarlo un lavoro all’altezza delle aspettative.

 

Manuela Barbato

 

 

 

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