Vi vorrei raccontare un sogno, spero di esserne in grado…
Ero a Napoli, in quella città screditata dagli invidiosi, esaltata dai più curiosi, in quel luogo spesso dimenticato, ma dai più grandi artisti sempre celebrato. Si stava per tenere un evento teatrale molto importante, un’anteprima mondiale, e io ero lì per poter scrivere e testimoniare di quello speciale accadimento su Campadidanza.

Fuori il teatro era gremito, io seguivo la gente incamminarsi verso il foyer, e dentro di me ero nervosa perché sapevo di dover assistere ad uno spettacolo senza intervalli che sarebbe durato 4 ore. Essendo incinta mi stavo preoccupando seriamente di come avrei fatto, sicuramente mi sarei dovuta alzare più volte durante lo spettacolo, avrei dovuto disturbare gli altri spettatori… Ma che altro avrei potuto fare?!? Chissà se l’artista aveva contemplato la reazione del pubblico di fronte uno spettacolo di 4 ore no stop? Non gli interessava o il tutto era stato premeditato? E se fosse stato premeditato, a che scopo? Io come spettatrice avevo uno scopo?
Ancora non sapevo a cosa sarei andata incontro…

Mentre ponevo a me stessa queste domande mi ritrovai in platea, e sul proscenio, ancora a sipario chiuso, si aggirava in un angolo un uomo. Sembrava ubriaco… Era ubriaco, aveva una bottiglia di birra in mano… Doveva essere un performer dello spettacolo. In quello stato egli non parlava, osservava semplicemente la gente, mentre la gente, assorta nelle proprie conversazioni, per lo più lo ignorava. Mi chiedevo se qualcuno lo vedesse lì a barcollare, io non riuscivo a smettere di guardarlo. Chi era l’attore e chi lo spettatore? Dove si stava svolgendo lo spettacolo?
In un attimo fu silenzio, e quell’uomo ribaltò il centro della scena iniziando ad enunciare il suo monologo. Parlava un inglese un po’ scadente nella pronuncia che alternava ad uno strascicante francese e ad un’altra lingua a me ignota. Raccontava di un piccolo paese: “Assurdilandia”: uno stato artificiale e instabile diviso in tre regioni, governato da un’ipocrita burocrazia e da una forzata formalità, dove le persone credevano nelle maschere e nel carnevale, dove i piccioni erano considerati animali sacri ed era possibile bere più di 200 tipi di birra accompagnati da patatine fritte che non bisognava mai chiamare “French Fries”. In questo modo l’uomo ubriaco ci introduceva tutti in quell’immaginifico teatro chiamato Belgio celebrato grottescamente attraverso la surreale regia satirica di Jan Fabre.

Iniziarono a stagliarsi davanti i miei occhi una serie di quadri meravigliosi, ancora non mi era chiaro: ero in un sogno o guardavo un sogno in divenire? Un orologio, un cronometro digitale posto su un palchetto laterale alla platea e rivolto verso il palco scandiva la perfetta e articolata strutturazione temporale delle scene, il susseguirsi progressivo dei quadri: l’orologio si resettava ogni 10, 12, 15, 19, 20, 21, 21, 25, 22, 21, 20, 15, 10, 10 minuti. 14 capitoli, quelli più lunghi spezzati da intermezzi di cori danzanti che rieccitavano ogni volta la percezione di noi spettatori, lì inermi, succubi di quel sacro e profano surrealismo.
Le scene ci trasportavano attraverso universi paralleli. I performer erano messi alla prova da prestazioni estreme, sempre più estreme, che richiedevano un’incredibile resistenza psico-fisica: in uno stato sempre vigile spesso la loro presenza sembrava invasa da un tangibile stato di trance. Quadri a volte Daliniani e altri Magrittiani magicamente messi in movimento da fiumi di birra, piccioni parlanti, carnevali danzati, e forti richiami erotici. Riferimenti socio-politici e di cronaca nera erano velati da citazioni performative colte che andavano da Valie Export a Marina Abramovic.
Dopo le prime due ore, il pubblico inconsapevolmente iniziò a danzare la propria coreografia della percezione. Convulsi da uno stato di aspettativa e insofferenza per la condizione data, gli spettatori iniziarono a muoversi fra le poltrone: camminando e cambiando posto in uno schema a scacchi, i presenti iniziarono a mostrare un interessante impulso comportamentale. In quel teatro noi non svolgevamo semplicemente una funzione contemplativa, di quel teatro noi eravamo la scena attiva.

Si alternavano i significanti doppi tradotti nella “complessa semplicità” di un compromesso poetico in cui era possibile osservare abbracciati insieme gli opposti così come la vita e la morte, il loro celebrato decadentismo.

Ero in un sogno o guardavo un sogno in divenire?

Gli applausi ruppero l’incantesimo di una regia scientificamente curata come può essere solo quella elaborata da un’artista come Jan Fabre che con Belgian Rules/Belgium Rules – in anteprima mondiale a Napoli presso il Teatro Politeama l’1 e il 2 luglio nel contesto della X edizione del Napoli Teatro Festival – ha condotto il pubblico nei più reconditi interstizi dell’immaginazione.
Risvegliati abbiamo rincontrato la realtà: tutto era più lento, le luci, i colori, i rumori: il mondo scorreva in un tempo-spazio diverso, vedevamo l’ordinario mentre ancora sentivamo nei corpi qualcosa che aveva avuto dello straordinario, straordinario come può essere solo vivere un sogno ad occhi aperti.

Letizia Gioia Monda

 

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