Ricordo molto bene una lezione di storia del teatro all’inizio dei miei studi universitari, il professore iniziò il corso dicendo che nelle arti performative il mito è come una cipolla, si compone di tanti strati, ognuno specularmente uguale all’altro; rimuovendo una foglia dalla cipolla essa non perderà la struttura che la rende una cipolla: continuerà ad avere la stessa forma ma allo stesso tempo sarà una cipolla nuova utile all’azione del momento. Il professore concluse che le storie mitologiche sono così: sono in grado di adattarsi alle epoche, alle azioni, alle forme d’espressione e alle necessità del momento storico restando sempre portatrici di un messaggio: di una verità che si rinnova con il cammino dell’uomo nei secoli. Come è noto infatti i più grandi artisti, in tutte le epoche, hanno riproposto l’attuazione dei miti del passato per condurre, la società a loro contemporanea, a riflettere e condividere diverse prospettive su aspetti centrali dell’esperienza umana, come: i concetti di bene e male, di amore e odio; sulle virtù e i vizi; sul cambiamento e il trascorrere del tempo.

Oggi viviamo costantemente in una dimensione della realtà accelerata dalle tecnologie in cui si è perso il tempo della festa, del riposo e dello svago. Gli sguardi sono annebbiati e si riflettono, soli, in schermi vuoti che danno su un mondo virtuale, freddo e astratto. Così, l’uomo si ritrova spesso a a condividere un comune sentimento di smarrimento: chi più, chi meno, percepiamo quotidianamente di aver perso la connessione con un aspetto importante della nostra natura umana.

In questo panorama, molti artisti contemporanei hanno sentito l’esigenza di affrontare nel loro lavoro il tema della metamorfosi, per afferrare il senso del cambiamento, analizzarlo e comprenderlo meglio in dialogo con lo spettatore. Uno di questi artisti è sicuramente il coreografo Claudio Malangone, che domenica 19 marzo presso il Teatro Nuovo di Napoli, ha concluso la rassegna Quelli che la danza 2017 portando in scena con la sua compagnia Borderline Danza la performance Metamorfosi. La trasformazione del conflitto. Il lavoro, liberamente tratto dall’opera Le Metamorfosi di Ovidio, colorato di un’estetica nettamente bauschiana, mette in scena alcune storie mitologiche con l’obiettivo di riflettere sulla natura umana nella contemporaneità. La coreografia si compone così di un dualismo molto esplicito, che si definisce freudianamente di una costruzione a specchio volta a palesare il continuo confronto tra mito passato e conflittualità psicologica dell’uomo presente. Lo stesso spazio coreografico vuole essere espressione di tale dicotomia, costituendosi della dialettica che si sviluppata tra i danzatori presenti in scena e la proiezione di una video-coreografica i cui interpreti sono gli stessi performer. In questo spazio coreografico, il tempo della performance è sospeso, immobile, dall’inizio alla fine del lavoro. Non un’ombra di accelerazione, di climax drammatico: il movimento molto consapevole e misurato dei danzatori non subisce trasformazione. I corpi si costituiscono di una partitura psico-fisica molto precisa e riconoscibile che resta immutata nell’elaborazione del dualismo. I danzatori, gli uni uguali agli altri, quasi senza identità, si muovono privati di una soluzione di causa. Assistiamo al susseguirsi di una serie di quadri, ognuno espressione di un mito diverso. Vengono scelti per questo lavoro: il mito di Caos raccontato attraverso la storia di Deucalione e Pirra; il mito di Orfeo e Euridice per raccontare l’amore perduto e la solitudine che da questo deriva; Ciparisso ed il Cervo per mettere in scena il dolore dovuto ad un lutto; si affronta il tema del desiderio struggente e sordo attraverso la storia di Narciso e Eco; e poi ancora viene proposto l’amore eterno di Piramo e Tisbe, l’ira divina nel mito di Aracne e Minerva, il tema dell’abbandono e la disperazione nella storia di Teseo e Arianna, e infine l’amicizia di Apollo e Giacinto. Tutti questi quadri, non sempre riconoscibili dei temi e delle storie piuttosto impegnative, si susseguono l’un l’altro in una metamorfosi senza trasformazione drammatica, ed il conflitto, se esiste nella versione Malangoniana, resta recluso in una sfera metafisica della performance troppo lontana per sollevare elementi familiari alla mente dello spettatore. Di fronte una creatività così sapiente come quella di Malagone mi sono posta due domande: è forse l’immutabilità l’unico modo di poter rappresentare al meglio attraverso la diversità del mito la condizione dell’uomo contemporaneo? Oppure è stata la volontà del coreografo di voler rimanere – consapevolmente o inconsapevolmente – ancorato ad un codice estetico molto riconoscibile ad aver determinato l’immobilità drammatica della performance? È necessario rimuovere una foglia alla cipolla per poter osservare la sua forma da un’altra prospettiva, per poter ammirare la potenza creativa che emerge dalla sua metamorfosi e così assaporare nuovamente il senso che trasmette la sapienza in essa contenuta.

Letizia Gioia Monda

Foto Virgilio De Amicis

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