“Au temps où les arabes dansaient…” è il titolo dello spettacolo del coreografo franco-tunisino Radhouane El Meddeb, rappresentato al teatro Trianon il 27 giugno nell’ambito del Napoli Teatro Festival. Il lavoro non è nuovo, è stato creato nel 2014 ed è stato già varie volte rappresentato anche in Italia. Scrive Radhouane El Meddeb: «Questo lavoro era in origine un progetto di cabaret, ma nel corso delle prove e degli eventi politici, si è evoluto in qualcosa di più radicale. Ho capito che non potevo utilizzare la forma del cabaret per celebrare un mondo scomparso. Gli Arabi hanno a lungo vissuto ritmi magici, quelli dei film degli anni 40, 50, 60 e 70… con la loro magia, i loro fondali di cartapesta e le atmosfere finte e pacchiane. … La violenza del nostro mondo ha penetrato la cartapesta dei fondali, li ha capovolti per decretarne la fine, la fine di un tempo che è solo illusione, un’illusione dolce, zuccherata, rotonda. Au temps où les Arabes dansaient… è l’eco lontana di questi canti e queste danze, colti nella tenerezza della speranza e del ricordo, nel fervore dei cuori e dei corpi. È anche una delle facce di un presente crudele, noioso e colpito dallo stupore».

El Meddeb mette in scena quattro danzatori, bravissimi, che eseguono la danza araba per antonomasia: la danza del ventre. I quattro cominciano nel silenzio, di spalle, con movimenti quasi impercettibili, per sviluppare poi una danza del ventre con tutti i crismi di sensualità e virtuosismo. Ventri che vibrano con il respiro, anche che roteano, braccia e mani che si distendono in richiami erotici. I quattro danzano, pregano (in ginocchio sui tappeti da preghiera), ma soprattutto ricordano e soffrono. Il loro movimento continuo e ossessivo sembra non essere altro che un vagheggiamento, il ricordo di un piacere che non c’è più, forse non c’è mai stato, e non esprime gioia, bensì sofferenza, per le negazioni e i divieti di oggi. La penombra, la scena spoglia, il loro costume che è solo l’abito quotidiano, calzone e camicia, il silenzio o le musiche essenziali e scarne, che si contrappongono agli abiti luccicanti e ai veli che nell’immaginario collettivo rappresentano la danza araba, restituiscono una dimensione claustrofobica. Qui la danza e l’erotismo si possono solo sognare, oppure si possono vivere in piccoli spazi, segreti e chiusi. I corpi vibranti sono nascosti alla vista, non possono esprimersi liberamente. Sembra quasi che noi spettatori possiamo vederli perché siamo chiusi con loro.

A un danzatore, nella scena forse più drammatica, viene prima “velato” il capo, poi la bocca, poi la testa sparisce sotto la stoffa nera e le luci si spengono. Il sogno muore, il vagheggiamento si interrompe.

L’idea che abbiamo oggi della danza del ventre viene direttamente dai soldati francesi al seguito di Napoleone, che la conobbero in Egitto e ne riportarono mirabilia. Gli europei la videro per la prima volta all’esposizione universale di Parigi del 1889, dove nella Rue de Cairo, si esibivano danzatrici a pancia scoperta, alimentando le fantasie erotiche dei visitatori maschi. In realtà la danza del ventre nasce come danza tutta al femminile, tra donne e per le donne, ed era una danza sacra, perché sacra era la fertilità, la nascita, la sessualità che crea la vita. Paradossalmente la scelta di El Meddeb di farla danzare solo a uomini, conservando tutta la sensualità che le è propria (ma la sensualità non è mica solo femminile!), restituisce a questa danza la forza e il significato originario: è la pancia che danza, che trascina col suo ritmo tutto il corpo e mai, nemmeno per un istante, il danzatore da soggetto diventa oggetto (come accade, ovviamente solo per condizionamenti culturali, per questa danza al femminile).

Resta da dire che lo spettacolo soffre di lentezza, soprattutto all’inizio, e dei silenzi prolungati, che lo rendono un po’ pesante.

Mara Fortuna

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