Wakan - Gilles Coullet

NAPOLI – “Wakan”, ovvero Grande Spirito, il dio-natura degli indiani d’America, è il titolo del lavoro che Gilles Coullet ha portato quest’anno al NTF, alla sala Assoli.

Tra tutte le genti che gli europei nel corso dei secoli hanno devastato, decimato e oppresso, agli indiani, alle tante tribù che abitavano i territori della parte Nord del continente, guardiamo ora non solo con rispetto e rimorso, ma anche con rimpianto. Esprimiamo una nostalgia spesso struggente per la natura umana, selvaggia e saggia, che gli indiani incarnavano e che noi abbiamo perso.

E non è certo un caso che Coullet, che ha chiamato la compagnia che ha fondato Le Corps Sauvage, abbia scelto questo tema. Il lavoro sul corpo, il movimento che porta in scena è tutto volto al recupero e all’espressione di una materialità al di fuori di ogni tipo di forma codificata, accademica o meno, tra danza e teatro, come lui stesso definisce il suo lavoro.

Lo spettacolo segue la traccia della lettera che Seattle, capo degli Squamish, scrisse al “Gran Capo di Washington” per spiegare che lui non poteva vendergli la terra, perché la terra non era sua, era lui che apparteneva alla terra. Coullet mostra, in una stupefacente parte iniziale, l’interdipendenza e la sostanziale affinità fra tutti gli esseri viventi. Si fa ragno, aquila, serpente, bisonte, rana e uomo, passando da un essere all’altro con meravigliosa naturalezza. Non mima, è.

Si fa homme rouge (anche se gli indiani non sono mai stati rossi) e parla con la loro lingua franca: il linguaggio dei segni. Ci racconta dell’arrivo dei bianchi, del dolore, delle distruzioni. Diventa uomo contemporaneo. Intrappolato da un impermeabile (oggetto che separa e allontana dal selvaggio) finisce per divorare se stesso. Quello che stiamo rischiando di fare: avendo dimenticato che la nostra esistenza dipende dalla terra, la stiamo divorando. Rompe, nel finale, il gioco teatrale che lui stesso ha creato. Per tutto lo spettacolo avevamo ascoltato la sua voce registrata che leggeva in francese la lettera di Seattle, mentre in scena lui parlava col linguaggio dei segni, alla fine parla direttamente al pubblico, in italiano e con i segni.

Per quanto il rivolgersi agli spettatori con il linguaggio dei segni abbia un effetto straniante, la scelta sembra tuttavia appropriata, perché esprime la realtà della difficoltà di comunicare, di “parlare” del mondo cosiddetto selvaggio al mondo civilizzato (che infatti non lo ascolta), e in definitiva del corpo selvaggio, che è in noi, al corpo civilizzato che portiamo in giro (con o senza impermeabile).

Mara Fortuna

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