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Di giorno o di notte lo spettacolo dal Castel Sant’Elmo è assicurato: una vista mozzafiato sulla città. Tra le antiche mura che risalgono al XIV secolo si respira tutta la storia, la bellezza, l’incanto di un luogo unico in un’atmosfera magica. L’ottava edizione del Napoli Teatro Festival non poteva iniziare meglio, pronti ad accogliere le più belle emozioni.

Ad inaugurare il lungo viaggio- che andrà avanti fino al 28 giugno tra spettacoli di prosa, danza e quant’altro- Paco Dècina con “La doucerur perméable de la rosée”, in scena nella Piazza d’armi del castello. Napoletano ma da trent’anni residente a Parigi, nel 1986 ha fondato la sua compagnia Post-Retroguardia, per la quale ha creato, e continua a farlo, un gran numero di lavori. E’ un artista che ha girato il mondo ed è certamente uno dei punti di riferimento della danza contemporanea europea. Concettuale, raffinato, profondo nelle sue idee che esprime col garbo, la pacatezza e il fascino di chi ha molto pensato/letto/vissuto prima di esporle, Paco Dècina afferma l’importanza della danza come un dovere sociale perché il teatro “è uno degli ultimi luoghi dove poter incontrare se stessi, offre un momento di riflessione privilegiata. Lo spettatore deve poter ritrovare una parte della sua storia personale in ciò che vede.” Forse è questo che non ha funzionato ne “La douceur perméable de la rosée”, non c’è stata questa immedesimazione, almeno da parte di molti spettatori. Nato da una residenza alle isole Crozet (arcipelago sub-antartico di piccole isole nell’Oceano indiano meridionale) lo spettacolo è incentrato sulla forza e la bellezza della natura “rimedio e antitesi alla violenza della nostra società”. Il problema è che a volte, nel prendere corpo, le idee e le emozioni non sempre risultano perfettamente leggibili. In questo contesto l’azione scenica è risultata a volte ripetitiva, difficile, scarna, sottolineata dalla musica di Fred Malle, a tratti ossessiva ed inquietante. Indiscutibile la bravura dei tre danzatori, Vincent Delétang, Jérémy Kouyoumdjian, Sylvère Lamotte, veramente strabilianti per fluidità, plasticità e totale disarticolazione, con capacità di recupero a dir poco notevoli dopo ogni perdita di equilibrio. Un trio molto ben affiatato che senza soluzione di continuità- per un’ora e dieci minuti- ha portato avanti un lavoro, curato in ogni minimo dettaglio, senza perdere la concentrazione. “E’ una storia semplice, un racconto senza parole che ha come protagonista la dolcezza, la permeabilità, come antitesi alla violenza- spiega Paco Dècina- non si tratta di una negazione della forza vitale, talvolta crudele e brutale, né di un tentativo naif di presentare la ‘vie en rose’. Questo lavoro mi ha offerto la speranza e l’opportunità, in quanto artista, di riequilibrare la costante manipolazione distruttiva a cui l’individuo è sottoposto.” Una sfida impegnativa.

Elisabetta Testa

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