Edmondo Tucci
Edmondo Tucci

Da sempre ha una predilezione dichiarata per la danza contemporanea. Ma Edmondo Tucci, primo ballerino del Teatro San Carlo, ha interpretato tanti ruoli diversi nell’arco di una carriera lunga ed intensa, spaziando da balletti classici a quelli neoclassici fino ad un linguaggio decisamente più moderno con non poche incursioni nella coreografia. Tutta la bellezza del suo corpo risplende ogni volta che è in scena e sotto sotto nasconde un’anima introversa e riservata, densa di sfumature. Nel ruolo di Orfeo (Orfeo e Euridice in scena al Teatro San Carlo), ha dimostrato tutta la sua esperienza, ripagato da un meritato successo personale.

Com’è entrata la danza nella sua vita?

Nel modo più semplice…mia sorella ha cominciato a studiare danza e io l’ho seguita. Mi piaceva molto la musica , ho avuto la fortuna di avere dei buoni insegnanti poi mi sono perfezionato in America. Sono sempre stato attratto dalla danza moderna e contemporanea. Ho deciso di tornare in Europa perché sentivo il richiamo della nostra cultura. Lavorando poi si acquista molta esperienza. Ho avuto tante difficoltà dal punto di vista fisico e tutto quello che ho ottenuto è stato strappato alla natura, ho timore di pensare che forse, andando avanti, ne pagherò le conseguenze.

Ho dovuto soffrire e penare per ottenere dei risultati, il mio percorso interiore invece è fatto di insicurezza, di incertezza pensando al futuro. Il nostro è un lavoro in qualche modo intimo, egoista, che si basa sulle sensazioni personali, sulla percezione del proprio corpo e quindi anche sull’auto-convincimento. Bisogna credere molto in se stessi per andare avanti. L’Italia non è un paese che investe tempo, soldi e attenzione nell’arte, ci vuole molta volontà e un pizzico di fortuna.

Come vive la situazione della danza all’interno del teatro?

Non ci sono spazi fisici per la danza e quindi spesso ci viene negata la possibilità di esprimerci attraverso la nostra arte, è una situazione frustrante, da una parte la volontà di andare avanti, dall’altra l’impossibilità reale di farlo. In un certo senso siamo come dei cavalli di razza, allenati per correre ma se vengono rinchiusi in uno spazio ristretto si alienano, perdendo di vista l’obiettivo primario: correre. Noi ballerini ogni giorno dobbiamo tenerci in forma facendo la classe quotidiana per poi andare in scena dopo due o tre mesi…è una situazione assurda, demotivante, sia fisicamente che psicologicamente. E’ facile lasciarsi andare e si innesca un meccanismo crudele.

In tanti anni lei ha lavorato con molti danzatori e coreografi di prestigio, c’è qualcuno di loro che ha lasciato il segno nel suo percorso?

Si, anche se i ballerini della mia generazione non hanno avuto il piacere di incontrare Rudolf Nureyev, Vladimir Vassiliev, Mikhail Baryshnikov, però ho avuto la fortuna di lavorare con Carla Fracci, che è un personaggio immenso. Chi ha lasciato il segno dentro di me è stato un ragazzo giovane, venuto al Teatro San Carlo su proposta di Roland Petit: Nikita Dimitrievsky, il quale nella sua ingenuità era veramente geniale. Ha utilizzato la musica di Bach in un modo assolutamente unico, lasciandomi la sensazione forte di sentire e capire la musica dal di dentro. Ricordava molto Balanchine.

Ce l’ha un progetto da realizzare?

Mi piacerebbe che la nostra compagnia avesse un repertorio un po’ più ampio, prima che io smetta di ballare. Come danzatore non mi sento ancora finito, anche se penso di avere espresso molto di quello che ho dentro, guardandomi intorno ci sono ragazzi giovani e validi che giustamente devono andare avanti. Mi interessa molto la coreografia, ho voglia di mettere nero su bianco dei progetti che ho. Il migliore che ho realizzato sono i miei due gemelli, Matteo e Viviana.

Che cos’è la danza per lei?

Un’amante. La desideri quando non c’è e la desideri ancora di più quando c’è. Con tutte le conseguenze: l’odio,il rancore…è una contraddizione in essere, dentro di sé.

Elisabetta Testa

 

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