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EDge è passata da Napoli facendo tappa al Teatro Mediterraneo ed esibendosi per un pubblico composto soprattutto da giovani allievi, ma anche da professionisti e critici di danza. Forse l’entusiasmo, se così lo si vuole definire, degli spettatori ha disturbato non poco lo spettacolo e più di una volta ho pensato di trovarmi in una situazione surreale: un misto di atmosfere da pic nic e improvvisi micro applausi da circo.

A parte la sensibilità e forse anche l’educazione che mancavano per stare a teatro insieme al rispetto e al silenzio sacro che si dovrebbero garantire agli artisti durante le loro performance, posso senza dubbio dire che lo spettacolo è stato grandioso.

Quattro coreografie spettacolari che hanno saputo rendere bene l’idea, non solo di un repertorio sofisticato e sorprendente in cui si muovono gli studi della London Contemporary Dance School, ma anche di un livello tecnico ed espressivo tipico dei più alti gradi di professionismo.

Si comincia con The Living Room di Yael Flexer coreografia asettica ed essenziale che esplora il gesto contemporaneo espressione di tutto quanto riempie la quotidianità domestica. Ognuno dei danzatori è chiamato a rappresentare un elemento di arredo utilizzando una sequenza di gesti che ricorda perimetro e volume dell’oggetto. L’ assolo interpretato dalla danzatrice inglese Lizzie Croucher ha poi elevato all’ennesima potenza un’atmosfera già surreale: la voce, il corpo, tre frasi pronunciate in tre tempi verbali differenti futuro, presente e passato ad indicare una progettualità che si materializza nella sua realizzazione. Un gesto ripetuto tre volte, un desiderio che diventa presente e che poi si trasforma in ricordo e in raggiungimento di uno scopo. “I’m goingi to save the world, I save the world, I saved the world”.

La seconda coreografia è  di Trisha Brown Canto/Pianto del 1998 rivisitazione de l’Orfeo di Monteverdi. Musiche che risentono ancora influenze del basso Rinascimento per una danza che ha contribuito ad aprire le porte dell’avanguardia contemporanea. Una scelta un po’ azzardata portare un lavoro così impegnativo e legato alla tragedia e al mito davanti ad un pubblico giovane, ma, al momento in cui Orfeo si volta per guardare la sua Euridice perdendola per sempre, la coreografia tocca un livello di tragicità altissimo e la gestualità e le figure scelte da Trisha Brown per riproporre in danza il tutto, rende perfettamente l’atmosfera drammatica del distacco eterno dei due amanti. Il pubblico lo comprende e lo apprezza preparandosi a scoprire la terza delle quattro coreografie: Because.

Creazione astratta senza pretese narrative Because di Idan Cohen scompone il corpo in tutte le sue possibilità motorie, lasciando allo spettatore lo stupore di assistere all’ evoluzione articolari dello scheletro del danzatore. Movenze al limite del possibile, tra gesti slabbrati e fluidi ed una qualità del movimento consapevole fino all’estremo. La scena si sviluppa su due piani contemporaneamente: il primo, espresso mediante il contact – tecnica in cui ci si affida inevitabilmente all’altro- è quello della pluralità in cui la fiducia e il reciproco soccorso indicano la necessità del vivere sociale, il secondo è quello dell’individualità, dimensione pacifica che può però trasformarsi in una circolarità sterile in cui il gesto, nel suo essere autoreferenziale, rischia di divenire ossessivo e convulso.

Si chiude con una coreografia di Ben Wright  A power to bring light into a dark room su musiche eseguite da violini e pianoforte. I danzatori trovano in questo lavoro una coordinazione di gruppo e un sincrono eccezionali che la natura della coreografia esalta attraverso un lavoro di figure ipnotiche e surreali. Ogni elemento pare essere uno strumento che esegue la partitura musicale completandosi perfettamente con gli altri come nella migliore delle orchestre, sorprendendo sempre e ad ogni istante il pubblico in bilico tra visioni eteree e cadute al suolo inaspettate.

La professionalità dei danzatori e la loro capacità interpretativa è sicuramente frutto di un grande talento innato, ma è anche risultato di un immenso lavoro che ogni giorno viene affrontato con serietà e devozione, con una finalità ben precisa, con un sogno nel cassetto da realizzare. L’università della danza, i docenti, le classi, i corsi, i percorsi formativi, le specializzazioni, i livelli di laurea, il professionismo raggiunto attraverso vie ufficiali e istituzionali. La possibilità di progettare seriamente il proprio futuro in un orizzonte coreutico e performativo. Guardavo quei ragazzi e pensavo: loro sono felici! Loro hanno l’appoggio delle istituzioni, loro sono laureati in danza! Suona ancora strano qui in italia e allora nella pretesa di avere anche qui  le loro stesse possibilità, sento di utilizzare le parole del coreografo Yael Flexer con pretesa di cambiare le cose: I’m going to change the world!

Manuela Barbato

 

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