Bouchra Ouizguen è una coreografa e danzatrice marocchina nata nel 1980 a Ouarzazate. Vive e lavora a Marrakech dove dal 1998 si impegna nello sviluppo di una scena coreografica locale, operando sull’incontro e sulle connessioni tra l’arte popolare marocchina e le influenze coreografiche contemporanee. Danzatrice autodidatta dall’età di 16 anni, è stata co-fondatrice dell’associazione Anania nel 2002, prima di fondare Compagnie O nel 2010. Nello stesso anno in Francia ha ricevuto il premio per la rivelazione coreografica dalla Società degli autori e compositori drammatici e il premio dall’Unione dei Critici del Théâtre Musique Danse. Numerose sono le sue opere e le sue collaborazioni, portate sui palcoscenici di tutto il mondo. I suoi spettacoli sono stati presentati da istituzioni quali il Tate Modern, il Museo nazionale d’arte moderna e contemporanea di Séoul, il Brooklyn Museum, la Power Station of Art a Shanghai e molte altre.

Di recente è approdata in Italia con una delle sue ultime creazioni, Éléphant, nell’ambito del VIE Festival a Modena. Purtoppo non è stato possibile incontrarla di persona, ma l’artista si è resa subito disponibile per rispondere ad alcune nostre curiosità.

Il desiderio di musica, danza e narrazione

Come e perché nasce Éléphant?
“Éléphant è uno spettacolo nato dal desiderio di musica, danza e narrazione. Attinge al repertorio marocchino delle arti popolari, sia per i costumi, che per i rituali e la musica. Si tratta anche dell’incontro di un gruppo, del gesto collettivo e dell’essere nella propria solitudine.
Cercando di raccontare le gioie, i dolori, le tracce di una vita. Quella dell’uomo, della pianta, dell’animale, del mondo che ci circonda e della nostre brevissime vite”.

È così che la Ouizguen riassume in poche, ma significative parole il motore della sua opera. Sfogliando il suo repertorio mi rendo conto che non è il primo lavoro a prendere il titolo dal mondo animale perciò viene spontaneo chiederle se rappresenta per lei una qualche fonte d’ispirazione.

“Il mondo degli animali, della natura, è il mondo curioso ed emozionante in cui viviamo. Alla fine, ci avviciniamo molto di più all’artigiano che al progettista, al giardiniere, alla natura e al mondo che la abita, più che al concetto. Mi piace lavorare a delle pièces concrete, grezze. Anche per parlare della natura e degli esseri che la popolano, per darle un titolo semplice, perché il mondo in cui viviamo e che attraversiamo ci circonda oggi e ovunque ci troviamo”.

Delle danzatrici non silenziose ma narranti

In che modo ha lavorato con le sue danzatrici?
“Con alcune sognando un assolo per loro. Proponendo loro di lavorare sulla voce e sul movimento, sulla musicalità. Portandole a spasso per la montagna. Lasciandole, incoraggiandole a prendere il loro posto, la loro responsabilità nel gruppo. Cucinando, condividendo un pasto. Immaginando uno spazio con Sylvie Melis che ha creato le luci, immaginando un tramonto e un’alba. Una sorta di attraversamento di una giornata, fino all’alba di un rito quotidiano, che nel tempo si trasforma in qualcosa di meno ordinario”.

Che ruolo hanno il canto e la musica nel suo processo creativo e nella performance?
“In questa pièce, più che in altre, la musica e il ritmo giocano un ruolo essenziale. E l’antico repertorio della musica popolare è il terreno del nostro immaginario. Dalla musica dei rituali, alla musica delle feste, al ritmo dei pianti nei funerali. Le voci che cantano ritmicamente le gioie e i dolori di una comunità mi hanno ispirato fin dall’inizio come un coro antico che potrebbe essere marocchino o ricordare il Mediterraneo, spero anche l’Africa. Non immaginavo delle danzatrici silenziose ma narranti”.

Lavorando sull’arte popolare marocchina ha mai trovato dei punti di incontro con quella italiana, trattandosi comunque entrambi di paesi mediterranei?
“Spero sempre che lavorare con l’arte popolare marocchina crei legami di reminiscenza con altre culture e la nostra storia è legata a quella italiana”.

Quello di Bouchra Ouizguen, insieme alla Compagnie O, appare un lavoro importante, a livello locale ma anche internazionale. Un possibile ponte fra tradizione e futuro. Un processo che oscilla tra individualità e collettività che sembra andare oltre la preparazione coreografica in sala prove. Un percorso conoscitivo, tanto personale quanto comunitario, fortemente rituale. Le parole dell’artista non possono che ammaliare e stuzzicare, nella speranza di avere l’occasione al più presto di incontrarla e conoscere nuovamente la sua danza.

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