Campadidanza Magazine ha lanciato quest’anno la prima edizione di “DANCE REWRITE – Bando di giornalismo e ricerca per Under 35”. Un bando rivolto a coreografi, danzatori, performer ed insegnanti di danza, così come studenti, ricercatori, operatori sociali, docenti e a chiunque volesse contribuire ad una nuova e diversa visione della danza. Ai partecipanti abbiamo chiesto di scrivere un articolo scegliendo fra tre ambiti: attualità “Come cambiare la danza con l’emergenza COVID-19; nuove prospettive di Didattica e Metodologia della danza; rilettura critica di un/una artista della danza del ‘900. In tanti hanno risposto e, alla fine, una giuria di esperti composta da Roberta Albano, Alessandro Toppi, Lorenzo Tozzi e Raffaella Tramontano ha scelto i vincitori. Di seguito l’articolo della vincitrice della sezione per la Rilettura critica.

Buona lettura a Tutti!

Simone Forti, la svolta minimalista della danza italiana

Roma, è il 30 ottobre 1968. Una sera d’autunno come altre per molti, non per la danza italiana. I turisti passeggiano a Piazza di Spagna, ignari della rivoluzione in atto a pochi passi da loro: al quarto piano del civico 20, nella galleria d’arte L’Attico, si sta svolgendo una performance dedicata al movimento, la prima in Europa a prendere vita in un luogo da sempre deputato all’esposizione di sole opere figurative, fruibili da una certa distanza e caratterizzate dalla fissità.

A Roma nel 1968 il primo concerto di danza sperimentale

Danze costruzioni, performance suddivisa in quattro azioni – Piano inclinato, Appesi, Canzone, Arrampicata – si presenta come l’esito delle ricerche condotte sul proprio corpo da Simone Forti, danzatrice e performer italiana vissuta negli Stati Uniti.

Giunta a Roma proprio nel 1968 per approfondire i suoi studi sul movimento corporeo, Simone propone al pubblico della capitale la versione italiana di Five Dance Constructions and Some Other Things, concerto di danza sperimentale andato in scena nel maggio del 1961 nel loft di Yoko Ono, in Chambers Street a New York.

La danzatrice immagina le sue Danze costruzioni come sculture: esibisce ogni performance separatamente dalle altre, occupando l’intero spazio espositivo, come fossero oggetti da osservare e sperimentare a tutto tondo, coinvolgendo un pubblico di non-danzatori.

L’evento racchiude in sé le sperimentazioni del collettivo di artisti, tra cui Forti, che si riunisce a partire dai primi anni Sessanta nella chiesa sconsacrata del Village di New York, la Judson Church, per elaborare una nuova idea, teorica e pratica, del danzare.

L’influenza di Futurismo, Dadaismo, Surrealismo

Influenzata dalle correnti artistiche provenienti dall’Europa – Futurismo, Dadaismo, Surrealismo – questa nuova concezione della danza si inserisce su una strada già aperta dalle rivoluzioni del Living Theater, degli Happening e del movimento Fluxus, e risente delle idee artistiche appartenenti al New Dada, alla Pop Art ma soprattutto al Minimalismo.

Le linee guida della teoria minimalista sono affini ai principi cui Simone Forti si ispira nei suoi lavori coreografici. Le sue performance risultano spoglie, lontane dall’espressionismo e dalla spettacolarità del balletto.

Il danzatore si presenta agli spettatori come una persona reale, fatta di carne e ossa, soggetta alla forza di gravità e limitata nelle sue movenze non più da costumi di scena che ne impediscono i movimenti ma solo dalle proprie abilità fisiche.

La fiducia che Forti ripone negli arredi scenici e nelle regole prestabilite per creare una coreografia corrisponde al desiderio, comune tra gli artisti minimalisti, di seguire un metodo di produzione oggettivo e sistematico, mentre il suo interesse per la percezione spaziale e per l’esperienza vissuta dallo spettatore anticipa gli esiti cui approderà il Minimalismo.

Quando Sargentini inaugurò il primo spazio artistico italiano underground

Concluso l’evento L’Attico si svuota, le pareti tornano bianche, l’ambiente tace. Tutto torna all’immobilità della galleria d’arte, ma non le idee del suo proprietario Fabio Sargentini che inaugura un nuovo spazio espositivo nel dicembre 1968, concependolo come un luogo aperto alle contaminazioni e alle interferenze dei diversi linguaggi artistici.

Primo spazio artistico italiano underground, Sargentini sceglie un garage in via Beccaria per ricreare lo spirito comunitario che unisce gli artisti americani del Judson Group in un clima laboratoriale. L’incontro tra la performer e il gallerista segna l’inizio della svolta che porterà un rinnovamento profondo nell’arte tersicorea italiana, conosciuta per il suo rigido accademismo e legata a canoni estetici ormai obsoleti.

Roberta Frenquelli

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