RainForest - Coreography by Merce Cunningham - ph. Laurent Philippe

“La danza è un movimento nello spazio e nel tempo”. Questa la risposta che Merce Cunningham ha sempre dato ad una delle domande che più frequentemente gli è stata posta nella sua carriera: che cos’è la danza? La sua è una risposta semplice che arriva nel momento in cui il viaggio intrapreso dalla composizione coreografica agli inizi del ‘900 approda ad un punto di non ritorno, aprendosi negli anni successivi alla ricerca, alla sperimentazione, all’improvvisazione.

Il Movimento

In On composition a dance, estate del 1962, alla domanda Come procede alla composizione di una particolare coreografia?” Cunningham dichiara che la sua composizione inizia “In modo diretto. Comincio con un passo (1). Passo che non è inteso come struttura ritmica di movimento, propria della tecnica classica accademica, ma come un “passo” che può essere un movimento dei piedi, delle gambe, così come delle mani, del corpo, della testa e da cui si sviluppano poi altri movimenti, senza l’idea di una storia o di un personaggio, o di un avvenimento intorno al quale si concentrano azioni che hanno uno scopo. L’inizio per M.C. è sempre il movimento fine a sé stesso o anche qualcosa che si muove come i Silver Clouds, i cuscini argentei di Andy Warhol (1928/1987) che galleggiano nell’aria per la coreografia RainForest del 1968. Di solito, per M.C. la coreografia inizia da sé stesso, dal suo corpo che si muove, come da uno o due danzatori a cui si presentano sempre nuove situazioni e possibilità, e la danza procede, si sviluppa nel movimento in sé, tra i danzatori ed il movimento, tra i danzatori e lo spazio, tra lo spazio ed il tempo. Il tutto non è assoggetto ad una idea prestabilita, piuttosto, dice Cunningham, somiglia più ad una conversazione che potresti avere passeggiando con un amico, lasciando sempre aperta la possibilità all’inaspettato, al caso, alla sorpresa, che è poi la cosa essenziale da fare. Il flusso collega, secondo la logica interna del movimento, il movimento stesso in forme mai compiute e definitive, poiché detratte da un caso strutturato, ed è il movimento stesso, sempre mutante, che si “compie” in una coreografia.

Nella sua forma più elementare o più complessa, l’interesse di Merce Cunnigham verso il movimento, è un interesse puro, incontaminato, chiaro, definito, che ci restituisce l’energia, l’ironia e la determinazione della sua integrità come coreografo e come rivoluzionario. Considerato un formalista, non ha mai ritenuto che il movimento non fosse significante, ma che ogni movimento fosse il significato di sé stesso senza le sovrastrutture dettate dal simbolismo, dalla narrazione, dalla necessità di “giustificare” il movimento stesso. Ed è ciò che ha reso il movimento leggero, semplice, sempre nuovo e diverso, allo stesso tempo essenziale e complesso. Poiché il movimento è sostanza.

“Nell’affermazione di Cunningham troppe volte elusa da critici ed esegeti della sua opera: “Il mio lavoro non ha per tema la danza (it’s not about dance), ma è danza (it’s dance)”, il coreografo suggerisce senza equivoci la volontà di esplorare, passo a passo con Cage, che lo precede in analoghe esplorazioni in campo musicale, le sconfinate possibilità non-intenzionali dell’arte del movimento, di creare danze purificate da ogni significato accessorio, persino dal concetto stesso di significato, ed infine, o soprattutto, affrancate dalle prospettive necessariamente ristrette dell’ego, offrendo allo spettatore una percezione sincronica del tempo e dello spazio proprio secondo i dettati della “sincronicità” junghiana…..” (2)

Merce Cunningham Dance Company in “Canfield”, 1970 – Cunningham (Front), Jeff Slayton (Rear) – Photo by James Klosty

A differenza della modern dance, alla continua ricerca di movimenti chiave, di simbolismi, ed a volte di una certa retorica che grava sui corpi dei danzatori, Cunningham sa fare a meno di tutto questo e ritrova il movimento umano sotto le stratificazioni di secoli. “Per il coreografo americano il movimento quotidiano per quanto apparentemente scontato e abituale poteva diventare un movimento di danza se inserito dentro una cornice concettuale e artistica. Come i rumori e il silenzio entravano nella musica di Cage, come gli “oggetti trovati” per strada di memoria duchampiana venivano assemblati da Rauschenberg nei suoi combine paintings, così i movimenti quotidiani, sgraziati e banali entrarono a pieno diritto nelle coreografie di Cunningham insieme a quelli da lui “trovati” nella tradizione ballettistica e nella danza moderna e a quelli da lui stesso inventati e sperimentati per la prima volta sul proprio corpo.” (3)

L’interesse di Cunnigham è quello di come mettere un passo insieme ad un altro, al senso cinestestico del movimento, alle qualità proprie del movimento, al ritmo che ha in sé, alle sue possibilità spaziali. Ogni movimento è un mondo infinito da espolare e che può essere esplorato fino in fondo solo in assenza della nostra determinazione, lasciandoci guidare dal movimento stesso.

”I am interested in how to put a step together,” Cunningham says today. ”I’m interested in how it looks from one view or another, in what it is kinesthetically – how you do it, what makes kinesthetic and rhythmic sense. I’m interested in exploring things such as arm placement.” (4)

L’idea di movimento in Merce Cunnigham è avulsa da ruoli, identità di genere, personaggi. In una intervista del 1985 con Terry Gross, parlando delle differenze tra il corpo ed il movimento di un uomo ed una donna, Cunningham dice: “I use them both as individuals – that is, simply as – who may be doing the same movement but not necessarily at the same time, just as you might as you – if you look at a flock of birds, in a sense, they’re doing the same thing. But they don’t really do the same thing. They don’t do it at the same time.” (5)

Per Cunningham chi danza è un individuo che può fare il medesimo movimento, ma non necessariamente allo stesso modo ed allo stesso tempo. Proprio come uno stormo di uccelli, in cui sembra che stiano facendo tutti la stessa cosa ma in realtà, se li guardiamo bene, non è così e non si muovono neanche allo stesso tempo. Una danzatrice ed un danzatore sono entrambi uguali e diversi. Hanno due gambe, due braccia ed una testa, ma la struttura del corpo di una donna è diversa da quella di un uomo, così come è vero il contrario. Ci sono movimenti e passi che originariamente sono stati pensati solo per gli uomini e che ora vengono eseguiti anche le donne. Oppure movimenti originariamente pensati solo per le donne che ora eseguono anche gli uomini, e benchè tutti facciano la stessa cosa, non la fanno allo stesso modo. La differenza, secondo Cunnigham, risiede nel fatto che ogni persona esegue lo stesso movimento in una maniera diversa da un’altra “And I think that’s fine. It’s human.”  (6)

Anche questo cambio di visione, di prospettiva nella visione dei corpi come individui, indipendentemente dall’identità di genere, quanto piuttosto nelle specificità che li rendono unici, M.C. fa un balzo veloce in avanti. O meglio sposta il problema, semplicemente perché per lui il problema non c’è, e continua a condurci in avanti, verso una visione del corpo, del movimento, dell’arte, verso un orizzonte che nessuno aveva mai visto e reso visibile.

Danzatrici e danzatori per M.C sono stati una parte essenziale del suo lavoro ed in molte occasioni ha dichiarato quanto fosse debitore ad ognuno di loro, per le energie, la dedizione, la disponibilità che hanno sempre dimostrato anche nelle condizioni più sfavorevoli, anche esplorando territori al fuori della consueta esperienza di chi danza. “And together, I hope they will agree, despite the unfamiliarity of the work, we have tried to hold a standard that for me is the balance of the tightrope. One side is to have the clarity, the strength, the virtuosity of movement and its demands of the body, like flexible steel. The other side is the abandon, if I may use the word, that allows you to be human. It is a wonderful performance koan”. (7) In equilibrio sul filo del rasoio, da un lato la chiarezza, la forza, il virtuosismo del movimento e le esigenze del corpo, come l’acciaio flessibile. Dall’altro lato, l’abbandono che ti permette di essere umano.

Merce Cunningham and Barbara Lloyd Dilly in “Rainforest” at BAM 1968 – Photo by James Klosty

L’idea di movimento di Merce Cunningham inevitabilmente si traduce nella sua tecnica ovvero nel modo di allenare il corpo del danzatore ad esplorare il movimento nello spazio e nel tempo. Non una tecnica fine a sé stessa ma utile ed utilizzabile da ogni danzatore per scoprire e sviluppare le potenzialità del corpo. Pochi i concetti chiave. Il rigore di un allenamento progettato per creare forza e flessibilità nel corpo e nella mente del danzatore, in cui con estrema chiarezza l’uso della colonna vertebrale trova modalità di coordinazione o di opposizione reciproca con il lavoro delle gambe. “Con la mia tecnica cerco di usare la schiena, la colonna vertebrale, il busto e le gambe. Nella danza moderna, hanno usato la schiena; nel balletto, le gambe. Semplicisticamente, ho pensato: “Perché non metterli insieme in tutti i modi possibili, a tutte le velocità possibili, anche nell’aria?” (8)
Cinque i movimenti fondamentali della colonna vertebrale – upright, tilt, twist, arch, curv – che non sono posizioni, pose o passi come nel codice della tecnica classica accademica, ma movimenti o azioni di movimento declinabili in tutte le loro forme e possibilità ritmico-spaziali, che unitamente alle forme di movimento già esistenti, come all’uso quotidiano del corpo, aprono ad un ventaglio infinito di potenzialità.

Il corpo del danzatore cunninghammiano acquisisce la capacità di muoversi simultaneamente con le parti del corpo in varie direzioni, oltre che su più piani dello spazio, con improvvisi cambi di direzione che gli permettono di viaggiare in qualsiasi punto dello spazio. Aspetti tecnici e stilistici che sarebbe impossibile raggiungere senza una precisa esecuzione ritmica, senza una incredibile gamma di varietà metriche e ritmiche, chiare e precise, che si sviluppano attraverso la dinamica del movimento.

Tutto ciò rende i corpi dei danzatori di Cunningham trasparenti e densi, leggeri e fluidi e, al tempo stesso, centrati e fuori centro. An art process is not essentially a natural process; it is an invented one. It can take actions of organization from the way nature functions, but essentially man invents the process. “ (9)

Come il processo artistico non è un  processo naturale, in quanto è l’uomo che crea il processo in una organizzazione che riprende il percorso funzionale della natura stessa, anche la disciplina del corpo, la tecnica di un movimento non è un processo naturale, ma può esserlo il suo risultato finale, la sua sintesi, nel senso che mente, corpo, spirito funzionano insieme, come una sola cosa.

Lo scopo della tecnica, secondo Cunningham, non è saper fare alcune cose o molte cose in modo spettacolare, ma saper fare qualunque cosa fatta bene, ponendosi come obiettivo la capacità di essere impeccabili. (10) Il corpo umano si muove in modo limitato e ci sono movimentI che non può fare e che invece un animale sarebbe in grado di fare. Ma entro i limiti del corpo Cunningham vuole essere sicuro di esplorare tutte le possibilità. “The human body moves in limited ways, very few actually. There are certain physical things it can’t do that another animal might be able to do. But within the body’s limitations, I wanted to be able to accept all the possibilities.” (11)

E’ l’estate del 1953 quando Cunningham fa una scoperta cruciale coeografando “Untitled Solo”: i movimenti fisicamente incompatibili possono essere comunque messi in una successione e quindi eseguiti. E’ il metodo del caso che inizia il suo percorso. Gettando monetine arriva ad una sequenza di movimenti opposti e isolati: ‘This solo made me realize you could go from one movement to another that was not in your memory, your own coordination, and that probably the body could accept more than what it thought.” (12)

Merce Cunningham at 498 3rd Ave, November 1970. Photo credit: James Klosty.

Cunningham sperimenta il movimento che non è ancora bagaglio della sua memoria, che non appartiene ancora alle sue coordinazioni e quindi spinge sé stesso oltre il confine di quello che ognuno di noi immagina che il proprio corpo sappia o possa  fare, nel senso che il corpo, il movimento possono andare più in là del nostro pensiero o delle capacità che il nostro pensiero gli attribuisce.Per decenni il suo lavoro è stato quello di porsi e porre domande su cosa può fare il corpo e fino a che punto si può spingere.

Caroly Brown dice con molta semplicità ed in modo diretto che per Cunningham “His choreography is not about something, it is something. The dancing is the story.” (13)

Le categorie di movimento

E’ il 1700 quando Raoul-Auger Feuillet (1660/1710 – ambedue le date sono incerte), danzatore e coreografo francese allievo di Pierre Beauchamps (1631/1705) e membro de l’Academie Royale de la danse fondata nel 1661, scrive per la prima volta il termine chorégraphie inteso come scrittura della danza, nel trattato Chorégraphie ou l’art de décrire la danse par caractères, figures et signes demonstratifs. Il trattato si sviluppa su tre livelli: un sistema di notazione che implica la scomposizione del movimento in elementi semplici, un vocabolario coreografico con 460 esempi di passi classificati in 11 tipologie, in base alle unità di movimento complesse, un repertorio di danze con la notazione musicale e coreografica. (14)

In questo sistema di notazione per la danza teatrale pubblicato dal Feuillet, creato da Pierre Beauchamp intorno al 1680, vengono descritti oltre che i passi, con posizioni e movimento dei piedi, anche i sei movimenti di base delle gambe: plié, releveé, sauté, cabriole, tombé e glissé. Oltre a parlare di passi, il Feuillet inizia ad individuare il movimento come elemento di base della danza, specificando i movimenti delle gambe ed i movimenti delle braccia: movimenti del piede, movimenti del ginocchio, movimenti dell’anca, movimenti del polso, movimenti del gomito, movimenti della spalla.

 I sei movimenti di base individuati dal Feulliet individuano non solo alcuni dei movimenti di base della futura tecnica classica accademica, ma anche i movimenti di base delle gambe in funzione delle loro caratteristiche anatomico-fisiologiche. Insomma il plié è il movimento di base che può fare un ginocchio, ovvero piegarsi ed estendersi (flesso-estensione oltre ad una leggera rotazione sul proprio asse e solo a ginocchio piegato) e non molto di più. Il plié di Feuillet differisce dal piegare di Cunningham solo per motivi storico-culturali, poiché nella nascente tecnica classica accademica il focus della sua strutturazione tecnica vedeva il “predominio” culturale degli arti inferiori sul resto del corpo. Con la nascita della danza moderna, il corpo non è più ripartito in parti o zone ma riconquista dopo secoli la sua unità, per cui quel plié può essere vissuto ed eseguito da una qualsiasi parte del corpo umano.

Merce Cunningham in rehearsal for the New York City Ballet premiere of Summerspace Martha Swope

Tale suddivisione dinamica del pas non subirà radicali cambiamenti nel tempo, se si pensa che nel 1894 Enrico Cecchetti (1850/1928), ballerino, coreografo e Maestro di danza tra i più famosi della sua epoca e non solo, definisce i sette movimenti fondamentali della danza in plier (to bend), étendre (to stretch), rélever (to rise), sauter (to jump), tourner (to tourn), glisser (to slide o to glide), élancer (to dart). Forse perché, in fin dei conti, sono questi i movimenti che il corpo umano può fare.

Le categorie di movimento descritte da Merce Cunningham – piegare, estendere, girare, saltare, equilibrio, cadere, camminare basso, camminare medio, camminare alto – così come i movimenti fondamentali della colonna vertebrale descritti nella coreografia “Torse” del 1976 – upright, tilt, twist, arch, curve –  sono quelli che il corpo umano può fare.

Se applichiamo questi movimenti a tutto il corpo e non solo alle gambe, ecco che le possibilità si moltiplicano. Se a questo aggiungiamo che ogni movimento è danza, il materiale a disposizione aumenta sempre di più, e se ci concentriamo sul fatto che un movimento è lo spostamento del corpo o di una parte di esso nello spazio, ecco che siamo arrivati alla danza contemporanea senza rendercene conto. “Falling is one of the ways of moving” (15) dice Merce Cuningham. Siamo arrivati nel punto in cui con un altro “passo” in avanti, ci troviamo alla post-modern dance.

Lo Spazio

Lo spazio di Merce Cunningham è lo spazio di Albert Eistein (1879/1955) quando afferma “non esistono punti fissi nello spazio “. (16) Quello di Cunningham è uno spazio relativo poiché non esiste un unico punto di vista da cui guardare un corpo, un movimento, una coreografia. E non esiste un unico centro della scena perché “se non esistono punti fissi nello spazio, allora ogni punto del palcoscenico è ugualmente importante”. (17)

Lo spazio di Merce Cunningham è il luogo dove avvengono i movimenti, si costruiscono le loro traiettorie.“ L’esplorazione dello spazio, le potenzialità di ciascuno dei suoi punti, portano all’assenza di priorità, che ridà allo spazio la tridimensionalità ed al corpo del danzatore la figura a tutto tondo. L’azione è ovunque, e la percezione dello spettatore è sollecitata da ogni parte, il danzatore stesso offre il suo corpo interamente allo sguardo dello spettatore. La destabilizzazione dello spazio e la dispersione dei danzatori porta ciascuno di loro alla dimensione di solista. Non è più possibile pensare ad un centro, poiché vi sono molteplici centri nel mondo. Il colonialismo non è più possibile e la figura del primo ballerino viene a cadere. Tutti sono contemporaneamente al centro del proprio centro, in una continua assenza di centro.” (18) Ed è proprio l’assenza di centro a “deconcentrare” lo spettatore, o meglio a ridare allo spettatore il libero arbitro, la possibilità di scegliere dove indirizzare il suo sguardo. Un effetto di straniamento, di disorientamento che coinvolge i danzatori come il pubblico.

Merce Cunningham rehearsing How to Pass, Kick, Fall and Run, Brooklyn Academy of Music, 1970. Photo: James Kosty, courtesy of the photographer.

Secondo il filosofo, urbanista, sociologo e partigiano francese Henry Lefebvre (1901/1991), “lo spazio di un ordine (sociale) è nascosto nell’ordine dello spazio“. (19) Lo spazio è sia uno spazio fisico in cui l’uomo agisce, si muove, sia uno spazio sociale in cui l’uomo abita e che definisce ed ordina la collocazione degli individui nei loro rapporti gli uni con gli altri. Proprio come avviene in una coreografia.

Se rapportiamo questo concetto a “… l’uomo barocco…[che] fondava sull’ordinamento gerarchico il significato, la giustificazione e la stessa legittimazione della propria esistenza. Al di fuori di esso, in difformità da esso, contro di esso non vi era alcuna possibilità di … essere legittimato a esistere. Una dicotomia così netta fra l’inclusione e l’esclusione rifletteva, d’altra parte, una visione della società concepita non come una struttura anonima e indifferenziata, bensì come parte costitutiva di un più ampio ordine cosmico che replicava la sua struttura piramidale nell’universo sensibile. Ben si comprende, allora, come il principio gerarchico disegnasse una società senza chiaroscuri, organizzata in stratificazioni sociali quanto più impermeabili le une alle altre…. Manca, insomma, il concetto dell’autoidentità (io sono quello che mi riconosco di essere), sostituito dal senso dell’identità sociale e della posizione da ciascuno occupata rispetto agli altri (io sono ciò che gli altri mi riconoscono di essere). “Il linguaggio del cerimoniale e la su sintassi psicologica non sono altro che la traduzione del linguaggio gerarchico”. (20) Che fa pensare al Corpo di Ballo in cui il ballerino cede la propria identità personale per una identità ed una posizione sociale di massa e decisa da un codice precostituito ed inviolabile. Così come le posizioni occupate nello spazio in un balletto ne traducono l’ordine gerarchico tra gli interpreti.

Alla corte di Luigi XIV Re di Francia, la posizione occupata nello spazio determinava lo status sociale di ogni individuo, dove l’essere abili nella danza era sia una convenzione sociale, sia una necessità politica, sia il segno di una educazione aristocratica. La danza, già inserita nella formazione dell’alta nobiltà sin dal tardo medioevo, nel barocco assume un ruolo socio-culturale centrale e proprio con Luigi XIV acquista un valore strategico-politico. Nella sua aura di Re Sole, Luigi XIV userà la danza com strumento di potere, per cui già essere ammesso come figurante in un balletto del re voleva dire partecipare alla sua gloria ed alla sua potenza, entrare nei suoi favori. I balletti di corte scandiscono i momenti politici e sociali più importanti della vita di corte e del regno.

“Le differenze di rango marcavano l’ordine di accesso alla stanza (del Re)… il successo a corte si misurava in termini di prossimità fisica con il sovrano.” (21)

Queste considerazioni si riflettono nelle forme sceniche dell’epoca sia delle corti italiane che francesi e porteranno poi alla formulazione balletto per come oggi ci è stato tramandato. Che l’ordine sociale dell’epoca si rifletta anche sulla scena, lo vediamo dalla posizione nello spazio occupata da ogni ballerino che ne definisce allo stesso tempo lo status del personaggio, la capacità tecnica ed interpretativa, sia della gerarchia all’interno della Compagnia di balletto. Anche in questo caso, come per il Re Sole, la distanza dal centro della scena e/o dal/dai primi ballerini definisce il proprio “rango” all’interno del balletto, così come l’esecuzione della propria variazione al centro della scena, con tutti gli altri ballerini immobili nelle loro pose, definisce il proprio status di principal dancer. Il linguaggio spaziale nel balletto traduce e ratifica la gerarchia sociale e psicologica interna al balletto stesso.

            Con Merce Cunningham lo spazio della scena diventa democratico, orizzontale, non ci sono apici spaziali, punti o luoghi privilegiati. Lo spazio di Cunnigham è acentrico o decentrato, privo di punti fissi, in cui ogni danzatore si muove sempre al centro di sé stesso. Perché il centro è dove sono. Sia che si tratti di  un danzatore che di uno spettatore. Il centro del palcoscenico, tradizionalmente “luogo” deputato per primi ballerini e solisti, non esiste più nelle sue coreografie. La danza può avvenire nel dovunque e ovunque intorno a noi, e non ha nemmeno bisogno di un orientamento frontale verso il pubblico, poiché non esiste un punto di vista privilegiato. La destrutturazione “sociale” dello spazio nella coreografia di Cunningham arriva al livello in cui è possibile iniziare a pensare il nuovo, a pensare diversamente.

Andrea Weber, Daniel Roberts, and Jonah Bokaer in Merce Cunningham’s “Interscape” (2000), décor by Robert Rauschenberg.
Photo: Tony Dougherty.

Il “quadrato Vaganova “ codificato dalla pedagoga Agrippina Vaganova (1879/1951) dai primi anni del ‘900 aveva sancito e convenzionalmente definito l’orientamento del ballerino nello spazio sia nello studio quotidiano che sulla scena, grazie ad una pianta – floor plan, nata per facilitarne l’orientamento sia rispetto ai lati che agli angoli del quadrato stesso e quindi in palcoscenico.

La Kinesfera di Rudolf Von Laban (1879/1958), ha portato il corpo del danzatore all’interno di un volume, rompendo la bidimensionalità del balletto, in cui il corpo del danzatore nello spazio si sviluppa in una sfera, inserita a sua volta in cubo, in cui il danzatore si orienta e si muove esplorando 26 direzioni spaziali principali.

La soluzione di Cunningham è un’altra, non è sostituire qualcosa con qualcos’altro, ma piuttosto eliminare il non-problema: non esistono punti fissi nello spazio. Un’idea di spazio totale, di cui non conosciamo forma e confini e che esploriamo in ogni movimento sempre per la prima volta. Un’idea che si riflette non solo nell’uso del decoro, costantemente delocalizzato o al centro di un centro che non esiste, ma anche nell’uso delle luci, che si distacca da un uso classico che vede gli effetti luce concentrarsi in punti specifici del palcoscenico per dare una maggiore drammaticità all’azione, scegliendo al contrario di illuminare quasi a giorno tutta la scena, lo spazio infinito.

Secondo Anna Kisselgoff, chief dance critic del The New York Times, in Merce Cunningham the Maverick of modern dance del 1982, Cunningham più di ogni altro coreografo si è preoccupato di “rompere” lo spazio. Allo stesso modo per cui ogni movimento può essere equivalente ad un altro, così qualsiasi punto dello spazio può essere utilizzato da ogni danzatore durante tutta una coreografia.

Questo non significa assenza di disegno, di strutture spaziali, di traiettorie, di convergenze e divergenze. Significa piuttosto che ogni volta puoi cancellare tutto quello che è stato scritto nello spazio e ritornare ad un foglio bianco, in cui disegnare uno spazio nuovo, diverso, ogni volta per la prima volta. Un disegno spaziale che non si sedimenta, non si stratifica, che non diviene una struttura fissa che la “tradizione” ti impone di rispettare per mantenere inalterata la linea stilistica e storica alla quale appartieni. Lo spazio non si tramanda, lo spazio si vive quotidianamente nelle sue sfumature e discromie.

Cunningham’s illustrative notes recording dancers’ paths in movement sequence XXVI from Changes: Notes on Choreography © Merce Cunningham Trust, all rights reserved.

La prospettiva scenica

Anche il processo di visione da parte dello spettatore cambia con M.C., poiché uno spazio così aperto e destrutturato – il che non significa che la coreografia non proceda per disegni spaziali –  produce una possibilità di attenzione multipla da parte dello spettatore e che non è mai diretta verso un punto particolare e che può scegliere cosa-chi- quando-come guardare di volta in volta e senza un ordine prestabilito. Ognuno può decidere liberamente tra i molti centri di attività presenti sulla scena ed essere attirato da invece di un altro, sviluppando una personale visione dell’opera coreografica che ogni volta si ripropone in maniera diversa.

Se nel balletto, e in qualche misura anche nella modern dance, lo spettatore è obbligato a guardare verso il centro della scena, poiché il disegno coreografico è sviluppato secondo una convergenza verso quello che è considerato un punto dello spazio privilegiato, ora il processo di visione dello spettatore cambia, perché può esercitare il libero arbitrio di scegliere cosa guardare liberamente.

Parlando con Terry Gross nell’intervista del 1985, Cunningham osserva come i teatri siano stati fino a quel momento costruiti sull’idea dei teatri “all’italiana”, in cui la prospettiva scenica ha un punto centrale a cui tutto si riferisce e che questo punto si trova direttamente di fronte al palco reale, in modo che il Re, la famiglia reale, potessero godere di una vista centrale, frontale e privilegiata, mentre per gli altri spettatori la visibilità della scena risulta meno ampia, meno chiara, o almeno dissimile da quella concepita dal coreografo che di fatto costruiva il balletto pensando ad un punto di vista unico.

“That doesn’t seem to me to be socially useful now, certainly not in the face of the way we think about people all over the world. That’s like colonialism in a way. It has another point of view, if you’re going to speak politically. But I didn’t think of it that way. Although later on, I thought about it. I thought, but there’s no reason why you can’t change the space. You do it in the streets. You don’t see people from the front in the streets. You see them from any angle. Why cannot you do that on the stage?” (22)

Per Cunnigham il “colonialismo” dello spazio è finito; per strada non guardiamo le persone frontalmente ma da ogni possibile angolazione, quindi perché non possiamo farlo anche sul palcoscenico?

Park Avenue Armory Event – Merce Cunningham Dance Company – Choreography by Merce Cunningha, Arranged by Robert Swinston
Music by David Behrman, John King, Takehisa Kosugi, and Christian Wolf
Décor by Daniel Arsham

Questo modo di vedere lo spazio ne cambia l’uso e non solo. Infatti, così come era già avvenuto tra le corti del ‘500, il teatro barocco e il teatro ottocentesco che per ospitare nascenti e diverse forme d’arte ne avevano costruito anche i luoghi, ci si rende conto che è necessario pensare e costruire luoghi differenti che possano ospitare l’arte contemporanea. Ma non sempre questo è avvenuto. La danza contemporanea in Italia non è riuscita a costruire i suoi spazi di rappresentazione, i suoi luoghi di spettacolo, ed è quindi costretta costantemente ad adattarsi al teatro all’italiana che mal contiene il concetto stesso di spazio proprio della contemporaneità, oppure ad uscire fuori dai teatri, “tradizione” iniziata proprio da M.C.

E’ infatti con M.C. che il corpo del danzatore esce dai teatri, dai luoghi deputati allo spettacolo, perché la danza non ha più bisogno del teatro o almeno di quel concetto di teatro, e va nelle palestre, nelle piazze, nei musei dove il pubblico si trova ovunque, su quattro lati, tre, due e dove è ancora una volta il pubblico a definire la propria personale prospettiva scenica ed il proprio centro di interesse. “And I – in my work, ever since I began with Cage years and years ago when I got to thinking about space – and it was that remark of Einstein’s where he said there are no fixed points in space. I thought, well, that works perfectly for the theater. (23) La conclusione per Merce Cunningham è sempre la più semplice: l’osservazione di Einstein sull’assenza di punti fissi nello spazio funziona perfettamente anche per il teatro.

Continua ……

Leggi anche:

Dance Compositioni 9 | Merce Cunningham, destrutturare l’arte: che cos’è la danza?

Dance Composition 8 | Cunningham, Cage, Rauschemberg, Johns: in principio fu Duchamp (seconda parte)

Dance Composition 7 | Cunningham, Cage, Rauschenberg, Johns: in principio fu Duchamp (parte prima)

Dance Composition 6 | Cunningham, Cage, Rauschenberg: un tempo in comune

Dance Composition 5 | Merce Cunningham, John Cage, il caso. Una storia d’amore

Fonti e citazioni

On Composing a Dance -Dance Perspectives No. 34, Summer 1968 – mercecunningham.org (1)

Mrece Cunningham – Un processo di collaborazione tra musica e danza – introduzione di Marinella Guatterini “Culture Teatrali” n.14 – 2006 (2)

Vito di Bernardi– Merce Cunningham e la scena dei  mutamenti – Culture Teatrali – La casa Usher – Alma Mater Studiorum – 2015 – (3)Anna KIsselgoff – Merce Cunningham the Maverick of Modern Dance 1982 – nytimes.com (4); (8); (12)

Terry Gross – Remembering Choreographer And Dancer Merce Cunningham- 2019 – npr.org (5); (6)

Cunningham Dancers – mercecunningham.org (7)

The Function of a Technique for Dance – The Dance Has Many Faces, ed. by Walter Sorell, World Publishing Co. 1951- mercecunningham.org (9)

Merce Cunningham – Space, Time, and Dance

Trans/Formations 1, pp. 150-151, Wittenborn & Co, 1952- mercecunningham.org (10)

Maria Popova – Legendary Choreographer Merce Cunningham on Life, Learning and the Creative Experience – brainpickings.org – (11) (15)

Carolyn Brown – Merce Cunningham and the language of the body – 2001 – nytimes.com (13)

Francine Lancelot – Écriture de la danse le système Feuillet – 1971 – jstor.org (14)

Spazio – sapere.it (16)

Merce Cunningham – sapere.it (17)

Gabriella Stazio – Note di programma – “Event 1 – Event 2” Coreografia di Merce Cunningham, musiche di John Cage, Takehisa Kosugi, David Tudor – Merce Cunningham Dance Company – Teatro San Ferdinando – Napoli – aprile 1985 (18)

Arabella Stanger The Choreography of Space: Merce Cunningham and William Forsythe in Context. Doctoral thesis, Goldsmiths, University of London – 2013 – research.gold.ac.uk (19)

Michele D’Andre – La società di corte nell’età barocca – accademiadelcerimoniale.com  (20)

Alexandre Maral – Versailles: un giorno alla corte del Re Sole – 2020 – storicang.it (21)

Terry Gross – Remembering Coreographer and Dancers Merce Cunningham – 1985 (riedizione 2019) npr.org (22); (23)

mercecunningham.org/the-work/choreography/torse

Michela Luzi – Dimensioni spociologiche dello spazio e del tempo  Università degli Studi Niccolò Cusano, Roma 2015 – ricerca.cusano.it

Irene Marone – Danza barocca: da Re Sole al balletto moderno – 2008 – baroque.it

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