Angela Fumarola è un’operatrice culturale e lavora al servizio degli artisti dal 1998. Dal 2014 è co-direttrice artistica di Armunia e del festival Inequilibrio di Castiglioncello. Abbiamo intervistato Angela Fumarola in occasione dell’inchiesta Covid-19/si cambia danza.

Lo streaming lo usiamo solo per i laboratori

La pandemia ha modificato il nostro lavoro, in particolare ci ha portati a cercare nuove modalità di contatto col pubblico, come l’uso delle tecnologie e delle piattaforme streaming. Lei personalmente sta usando le piattaforme streaming?

“Personalmente no, ma stiamo usando le piattaforme per condividere momenti laboratoriali con il nostro pubblico. Abbiamo anche scelto di sperimentare alcune attività, che normalmente facevamo dal vivo, su piattaforme digitali. Percorsi ripensati, insieme agli artisti, per una dimensione diversa, che in questo momento stanno funzionando molto bene. Ad esempio i laboratori in digitale sulla lettura per gli adulti; i laboratori in digitale sulla filosofia e sul teatro per i bambini dagli 8 anni agli 11 anni e i laboratori sul movimento per adolescenti dai 14 ai 17 anni. “Essi ci hanno consentito non solo di mantenere una relazione con chi normalmente frequentava i nostri spazi situati a Rosignano Marittimo ma anche di ampliare i contatti.

La telecamera solo per alcuni prodotti

Durante il lockdown, abbiamo chiesto agli artisti ospiti nelle nostre residenze di estendere la ricerca anche su qualcosa che fosse esclusivamente per il digitale e abbiamo ospitato virtualmente residenze offrendo loro cura, in termini proprio di assistenza tecnica e tecnologica. Non abbiamo mai usato la telecamera per riprendere spettacoli dal vivo da proiettare in streaming. Abbiamo piuttosto pensato a dei prodotti per il digitale da usare soltanto in quel format”.

Le tecnologie e le piattaforme streaming determinano nuove condizioni artistiche. Nell’assenza di pubblico dal vivo secondo lei la corporeità si perde o assume nuovi significati?

“Per l’artista il palco e il pubblico sono imprescindibili.  Credo che danzare davanti ad una telecamera  cambia la fruizione e l’esecuzione di un’opera”.

Quanto queste nuove modalità permettono di sperimentare risultati artistici innovativi?

“Sicuramente c’è un’espansione del potenziale creativo. Io sono molto ottimista in questo senso. Non credo che sia una deminutio ma che sia semplicemente un’acquisizione di nuovi strumenti di indagine”.

La pandemia è stata anche un forte acceleratore

La pandemia non ferma la creatività ma forse cambia il processo creativo. Crede che questa esperienza stia cambiando il suo modo di fare, creare, organizzare arte?

“Questo tempo mi ha permesso di ampliare moltissimo la rete, le connessioni, le relazioni.  Mi ha concesso anche il lusso di immaginare dei nuovi processi di sostegno, utili agli artisti. La pandemia è stato un fortissimo acceleratore nel senso che gli organizzatori si sono sentiti responsabili verso gli artisti e il loro diritto alla creatività. Le produzioni hanno avuto un rallentamento che è diventato una forza per attivare nuovi processi di pensiero. Credo che alcuni operatori abbiano lavorato molto bene insieme garantendo reti di sostegno molto forti per gli artisti”.

Dal punto di vista artistico/creativo crede che la pandemia abbia fatto scoprire qualcosa che si potrà usare anche a pandemia finita?

“Credo di sì. Sul piano della ricerca sul digitale credo che non torneremo indietro nel senso che porremo quel tipo di immaginazione accanto a quella consueta e meravigliosa del teatro dal vivo. La pandemia ci ha offerto anche la possibilità di aprire delle nuove finestre, nuovi modi di interagire non solo fra operatori, ma anche nei confronti degli artisti. Questo tempo ci ha dato la possibilità di sentire il vuoto di alcuni aspetti e di riconoscere il valore e l’importanza della ritualità del teatro. Il teatro ci è veramente mancato e per questo motivo, quando questa emergenza sarà finita, e sembra siamo vicini, avremo più pubblico nelle nostre sale”.

Gli spettacoli in streaming comunque dovrebbero essere a pagamento

Le nuove modalità di distribuzione (ad esempio piattaforme streaming o canali TV) hanno modelli economici molto diversi da quelli dello spettacolo dal vivo. Che tipo di ritorno economico possono dare le piattaforme streaming? Si può pensare a un nuovo modello di ritorno economico?

“Bisognerebbe immaginare dei format che abbiano una finalità anche di ritorno economico, qualsiasi produzione artistica è giusto che sia pagata e che il pubblico paghi per accedervi, a tutela e per riconoscere il lavoro che c’è dietro. Sicuramente gli spettacoli devono essere pagati anche nelle piattaforme streaming, ma perché queste diventino un sistema che possa produrre denaro bisognerebbe inventare delle piattaforme con dei criteri pensati ad Ok”.

Secondo lei i canali tematici come Rai 5, Sky Arte, Sky HD)potrebbero sostenere lo spettacolo dal vivo durante e anche dopo la pandemia?

“Magari! Sarebbe meraviglioso se a livello capillare il teatro e la danza, venissero distribuiti in modo molto intenso tanto da entrare dentro le nostre case con maggiore quotidianità e soprattutto in orari meno proibitivi. Sarebbe auspicabile una politica culturale che ponesse la crescita civile di un paese al centro delle scelte e non solo l’economia. Una politica culturale di ampissime vedute che guardasse alla trasformazione del pensiero intorno all’arte e alla cultura”.

E in che modo potrebbero farlo in maniera efficiente?

“Un modo efficiente potrebbe essere quello di rivelare quello che c’è dietro il processo creativo ossia: come si dipana la nascita di una creazione. C’è un mondo che è un universo sconosciuto al pubblico. Non parlo solo del backstage ma anche dell’ideazione di un lavoro artistico: come nasce, come si svolge, le difficoltà, i fallimenti… Il fallimento ad esempio è un aspetto interessantissimo della creazione: concedersi il lusso dell’errore all’interno del processo creativo è importante per migliorare la qualità dell’opera. Raccontare un’opera partendo dall’ispirazione e raccontarne il “filo”. Generalmente si ritiene importante narrare i processi creativi dei grandi autori, sarebbe molto utile farlo anche per i nuovi. Il processo creativo restituisce valore all’esito finale”.

In futuro lo streaming conviverà con lo spettacolo dal vivo

Secondo lei, quando l’emergenza sarà finita, lo spettacolo dal vivo continuerà ad usare alcuni degli strumenti che è stato costretto a usare nella pandemia?

 “Penso di sì. Avremo una doppia possibilità, una cosa non escluderà all’altra e useremo complementariamente le due cose. Sono assolutamente favorevole alle due opzioni fermo restando la consapevolezza che sono due cose completamente diverse: due canali e due modalità di percezione e azione differenti”.  

Quali saranno secondo lei i rapporti fra la performance dal vivo e le forme di riproduzione e distribuzione che oggi si stanno sperimentando e progettando?

“Moltissimi artisti durante la pandemia hanno immaginato, riprodotto e creato delle performance fuori dai teatri, utilizzando le tecnologie. Essi hanno modificato l’immaginario e anche la spazialità. Credo che tutto ciò possa aiutare la distribuzione semplicemente perché amplifica le possibilità di fruizione e la scelta dei pubblici”.

I teatri chiusi hanno contribuito ad allontanare il pubblico

Questa lunga emergenza ha cambiato il rapporto con il pubblico. Secondo lei in che modo?

“I teatri chiusi hanno contribuito ad allontanare il pubblico. Molti operatori stanno lavorando per ricostruire quello che è venuto a mancare. Le strutture sono state chiuse al pubblico, ma hanno continuato a lavorare, chi usando lo streaming, chi progettando, chi pensando progetti per il digitale, chi attraverso la restituzione dei processi di creativi durante le residenze, comunque tutti hanno tenuto viva la relazione con il proprio pubblico”.

Cosa ne pensa delle comunità virtuali che la pandemia ha creato o rafforzato fra danzatori e pubblico?

“La parola comunità è una parola che mi piace molto. Mi auguro che queste comunità possano continuare ad esistere e magari trasformarsi in comunità reali. Sono favorevolissima e le trovo interessanti se c’è una narrazione. La dimensione digitale creerà la sua comunità, il dubbio è:_ Come coltivarla e consolidarla nella liquidità del web?”.

Tornando a teatro quali saranno secondo lei le tracce di questa lunga separazione?

“Penso che la prima percezione possa essere il ritorno ad una ritualità. Entrare nella sala teatrale e sentirne l’odore, trovare il proprio posto a sedere, il silenzio, il sipario, ritrovare cioè tutti gli elementi che costituiscono il rito, un rito che convoca tutti in platea. Questa è una parte che è mancata potentemente. Lo streaming non giungerà mai ad una percezione totalizzante dove anche i sensi sono attivati: l’olfatto, l’ascolto del respiro e del colpo di tosse. Credo che il concetto di ritualità sia la parte più ricca e che ci è mancata”.

Secondo lei lo spettacolo dal vivo è indispensabile alla vita sociale?

“Assolutamente sì, è indispensabile. Come operatrice credo che la mia missione sia appunto  difendere la pienezza e la ricchezza catartica della scena. Lo spettacolo è cosa viva e imprescindibile per l’umanità”.

Lo spettacolo dal vivo non morirà mai

Ha timori riguardo alla sopravvivenza dello spettacolo dal vivo?

“No. Lo spettacolo dal vivo non morirà mai! Sono convinta che lo spettacolo dal vivo potrà essere fatto ovunque, laddove si crei relazione fra attore e pubblico, o fra chi ha qualcosa da narrare e il suo pubblico.

Si dice che una crisi è sempre allo stesso tempo un pericolo e un’opportunità. Quali sono i pericoli e le opportunità di questa crisi?

“Il pericolo è che possa incancrenire alcuni meccanismi e quindi che la crisi diventi un alibi per non crescere e rimanere nella zona confort”.

Procurarsi un lavoro è un lavoro anche in tempi non di Covid.  Da questo punto di vista come si organizza?

“Credo sia utile stare in una totale apertura rispetto alle cose e soprattutto stare nella condizione di reciprocità. Se si ha un progetto, un’idea, un’intuizione o un’intenzione occorre riuscire a trovare i partner giusti con i quali dialogare, modificare, rimodellare e rimodulare le cose. E’ importante per me restare in apertura, in ascolto e intuire quali sono gli interlocutori giusti. C’è poi un altro elemento importantissimo che è l’accelerazione che c’è stata nella comunicazione. Saper comunicare in modo molto chiaro il proprio progetto, le proprie idee, in questo tempo pandemico, è utile per trovare nuove opportunità di lavoro anche in post pandemia”.

La qualità dei progetti

Che cosa dovrebbe cambiare per rendere più gestibile la ricerca del lavoro?

“Prima di tutto il livello dei progetti dovrebbe essere alto e ambizioso. Bisognerebbe trovare interlocutori capaci di ascoltare e che si assumano il coraggio di rischiare. Fondamentale, poi, sarebbe avere intorno un sistema teatrale dialogante e responsabile dove ogni segmento svolga il suo ruolo con visione e progettualità. TRIC, Centri di Produzione, Circuiti, Centri di Residenza, Festival, Rassegne, ognuno deve giocare la sua parte in modo virtuoso e con una visione”.

La burocrazia rallenta moltissimo il lavoro degli organizzatori

Parliamo delle problematiche della gestione economico-amministrativa per i singoli artisti e le imprese.Quanto tempo, energie e risorse queste portano via al suo impegno organizzativo?

“Il tempo che si impegna nelle pratiche burocratiche sta diventando sempre più impegnativo. Ne veniamo risucchiati e la dimensione amministrativa lascia poco spazio a quella immaginativa. Gli artisti se non hanno un’organizzazione alle spalle, si perdono dentro queste dinamiche che tolgono tempo alla ricerca, allo studio e all’ approfondimento. Ecco perché hanno valore gli spazi offerti dalle residenze artistiche: luoghi dove l’artista è accolto e riesce a lavorare dimenticando tutto il mondo fuori, dedicando tutto il suo tempo esclusivamente alla ricerca, e dove può anche trovare indicazioni e sostegno amministrativo”.

Secondo lei ci sono delle soluzioni “a portata di mano” alle quali non si sa o non si vuole ricorrere?

“Per i giovani autori, c’è la possibilità di affiancarsi o entrare dentro organismi più grandi e quindi tramite loro riuscire a liberarsi da una serie di impellenze di altra natura. C’è qualcuno che pensa a tutta la parte burocratica mentre loro possono fare gli artisti. Tutto ciò però ha un prezzo, ha un costo. Bisognerebbe che le strutture si facessero carico, se parliamo di giovani autori, di tutta la prassi burocratica. Però, uscire dalla burocrazia credo sia veramente impossibile, ora come ora”.

La distribuzione territoriale delle risorse ha una parte decisiva nella vita artistica. Ritiene che la sua regione sia adeguatamente sostenuta dalle risorse pubbliche nazionali e locali?

“Io opero in Toscana e devo dire che qui siamo sostenuti.  C’è una visione che offre una trasversalità di interventi che vanno dal sostegno artistico agli autori, al sostegno ai festival. Certo è che senza sostegni di natura pubblica questo lavoro, in questo modo, non potremmo farlo. Armunia è una struttura fortemente sostenuta dalla pubblica amministrazione dal Comune di Rosignano Marittimo che oltre ai teatri e agli spazi  per le residenze ci offre sostegno economico per portare avanti il progetto. La Regione Toscana e il Ministreo ci finanziano le residenze e il festival”.

Colpa dei politici se lo spettacolo dal vivo non è abbastanza considerato

Il sistema dello spettacolo dal vivo, e più ancora il settore della danza, sembrano molto poco conosciuti dal pubblico, dai media e soprattutto dai decisori politici. Cosa pensa si potrebbe o dovrebbe fare al riguardo?

“Penso che una buona responsabilità ce l’abbiano i politici. Essi dovrebbero partecipare più attivamente al fare artistico: andare a teatro, sapere quello che avviene nelle sale prova, sapere cosa significa produrre e quali sono le complessità di un sistema. La politica dei numeri e degli algoritmi non funziona per la costruzione di una società civile. Una politica culturale consapevole che vuole stare dalla parte dei cittadini deve garantire strumenti di fruizione capillare per la cultura provando a stare dalla parte dell’utopia”.

Spesso si dice che la danza ha poco spazio nelle programmazioni dei teatri perché ha poco pubblico. Secondo lei è vero?

“Dipende dalla relazione che si costruisce con il pubblico, dal patto che si fa con esso. Importante è non tradire questo patto ossia le sue aspettative. Non nego che la danza contemporanea abbia le sue complessità, così come lo ha il teatro contemporaneo, che non stanno alla logica dei grandi numeri. Non c’è niente di strano, sono altre scelte artistiche/stilistiche. In ogni caso credo che l’operatore abbia una grande responsabilità quando pianifica e quando crea il suo programma, perché questo determina il suo pubblico. Quindi, da un lato ci sono le proposte artistiche e dall’altro ci sono le relazione che si costruiscono con il pubblico che devono essere costanti e trasversali: laboratori, aperture, letture, incontri serali. Questo crea fiducia, genera pubblico, muove interesse, e crea comunità”.

Come vorrebbe il suo pubblico?

“Mi sentirei vincente se riuscissimo ad avere un pubblico anche di diciassettenni”.

La figura dell’operatore culturale e il ricambio generazionale

Come si è formata per diventare operatrice culturale?

“Ho avuto un percorso frastagliato. Ho avuto la fortuna di avere dei genitori che mi hanno portata a teatro sin da piccola. E non ho mai smesso di andare a teatro. Ho seguito poi dei corsi di formazione.  Ai miei tempi c’era soltanto il D.A.M.S. di Bologna, ma ho scelto Scienze Politiche per poi studiare Management culturale e ho avuto la fortuna di iniziare subito con il Festival Inequilibrio nel 1998”.

Il ricambio generazionale in Italia è difficile, anche nella danza. Secondo lei perché?

“C’è un proliferare di giovani artisti ma l’accompagnamento per essi è scarso. Andrebbero accompagnati per trovare una stabilità, una costituzione solida di approccio/relazione alla materia creativa, per intenderci.

Si potrebbe migliorare quello che già abbiamo

Se improvvisamente avesse il potere di risolvere i problemi del mondo della danza che cosa farebbe per primo?

Creerei un sistema veramente sinergico dove formazione, produzione e distribuzione andassero allo stesso ritmo. Partirei da una politica formativa, molto attenta e aperta, legata alla possibilità. Senza inventare nulla di nuovo, perché la struttura e il sistema già c’è.  Metterei invece l’esistente, nella condizione di lavorare stabilendo i processi di “accompagnamento” per i giovani, la struttura di consolidamento per i meno giovani e l’espansione della circuitazione riducendo la burocrazia e favorendo una diffusione capillare della danza.

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Giornalista e critica di danza, danzatrice, coreografa, docente di materie pratiche e teoriche della danza, docente di Lettere e Discipline Audiovisive. Laureata in Arti e Scienze dello Spettacolo e specializzata in Saperi e Tecniche dello Spettacolo all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Dal 1990 è direttore artistico e insegnante del Centro Studi Danza Ceccano e curatrice del ”Premio Ceccano Danza". E’ inoltre direttrice e coreografa della CREATIVE Contemporary Dance Company.