lorca massine foto

Figlio di Léonide Massine, artista di spicco della storica compagnia dei Ballets Russes che ha stravolto i canoni classici della storia della danza mondiale, Lorca Massine è una persona eclettica, simpatica, di grande cultura e comunicativa che ha lavorato con alcuni tra i più celebri personaggi del panorama internazionale.

Come, quando e perché è entrata la danza nella sua vita?

In una famiglia di artisti è stato naturale seguire questo percorso. Mio padre ha sempre viaggiato tantissimo mentre io lo aspettavo a casa studiando musica, composizione, direzione d’orchestra, arte drammatica, letteratura. L’approccio con la danza è stato difficile anche per i soliti pregiudizi nei confronti dei maschi. Fin da giovane sono stato attratto dalla coreografia, era proprio una vocazione tanto è vero che a sedici anni ho creato il mio primo lavoro e da allora non mi sono mai fermato. Non sono stato aiutato da mio padre, ho dovuto sfondare con le mie forze e la mia volontà. Mi sono sempre interrogato sul significato dei movimenti, la danza si può considerare razionale o completamente irrazionale, noi oscilliamo tra queste due dimensioni. Si può essere estremamente precisi e ricercare la forma, lo stile puro, dunque essere apollinei…ma questo non basta per creare o per essere un danzatore, bisogna avere anche una dimensione dionisiaca, che è quella irrazionale. Soprattutto non ‘fare’ il movimento ma essere il movimento stesso. Il corpo umano è un’espressione divina, il più grande nemico della danza è l’ego perché ci si innamora dei propri difetti, invece bisogna ricercare la forma perfetta.

E’ stato difficile avere un padre così importante?

E’ stato difficile non ammirarlo ma sentivo l’esigenza di creare un mio percorso professionale. Certo, dovevo pur essere il figlio di qualcuno…ma ho sempre cercato di essere me stesso, sono stato coraggioso nel portare avanti le mie scelte.

Qual è il linguaggio coreografico che predilige?

Un linguaggio totale. La danza classica è un alfabeto che aiuta poi nel moderno, nel contemporaneo e in qualsiasi altro stile. La danza è come la musica, c’è quella buona e quella cattiva. In qualsiasi forma d’arte si crea un mosaico di tutte le forme possibili e immaginabili, bisogna essere generosi, prendere e dare. Guardando gli altri ci si arricchisce.

Lei ha conosciuto persone di grande spessore artistico, ce n’è una in particolare che ha inciso nel suo percorso?

Il primo è stato Maurice Béjart, ha confermato ciò in cui credevo: la danza è teatro. Poi Jerome Robbins che mi ha insegnato il professionismo: niente viene lasciato al caso, qualsiasi movimento deve essere definito. George Balanchine mi ha insegnato la matematica: ci sono dei parametri al di fuori dei quali non si può andare.

Che cosa la colpisce in un danzatore?

Il coraggio. Riuscire ad andare oltre il corpo per diventare spirito. Il peggio che si possa vedere è un bellissimo danzatore con un’ottima tecnica che non esprime niente.

Come nasce una sua creazione?Da un’idea, dalla musica, dalla storia, da un’emozione?

Ogni coreografo ha il suo processo creativo, per me la letteratura è una fonte molto importante ma a volte l’ispirazione può nascere dalla musica.

Zorba il greco è il suo più grande successo…

E’ l’irrazionale, il dionisiaco. Non appartiene a nessuna forma in particolare, il linguaggio coreografico è stato concepito su una forte base folklorica completamente liberata da ogni schema, su cui spicca il sirtaki, la tipica danza greca. Non c’è uno stile preciso ma un caos ordinato che mi permette di tornare al principio della creazione, di attingere alla catarsi, che vuol dire passare dalla ritualità degli interpreti al pubblico. Zorba è energia pura.

Che cosa la emoziona nella danza?

La ricerca, la semplicità, la volontà di creare. Il fermento che c’è tra i giovani a volte è molto interessante, spesso però non hanno la possibilità di arrivare ad un grande pubblico.

Quali sono i cambiamenti più evidenti del mondo della danza?

La mancanza di novità. Ogni coreografo ha la sua formula. La cosa più interessante sarebbe rompere gli schemi già stabiliti, andare oltre. C’è molta banalità, che a volte diventa volgarità, e troppa competizione che rende la danza più simile alla ginnastica che all’arte.

Il ricordo più bello della sua carriera?

Il domani.

Ce l’ha un ricordo legato all’isola de Li Galli dove lei ha vissuto momenti indimenticabili della sua vita?

Aiutando gli operai che lavoravano sull’isola ho imparato il dialetto napoletano, una vera rivelazione per tutta la cultura che c’è alle spalle. Sono innamoratissimo di Napoli, è una città che ha un’energia veramente speciale, c’è molto calore e il contatto umano è tutto nella vita, la spontaneità che si respira è fantastica!

Elisabetta Testa
zorba il greco FOTO

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